Solennità di Pentecoste – Anno B

Letture: Gen 11,1-9 / At 2,1-11 / Sal 103 / Gal 5,16-25/ Gv 15,26-27; 16,12-15


ANTI-BABELE



Babele

Il racconto muove i passi da una situazione visibilmente idilliaca: «Tutta la terra aveva un'unica lingua e uniche parole» (Gen 11,1). Che bello: gli uomini avevano un solo linguaggio, adoperavano le stesse parole. Viene da immaginare una facilità di comunicazione, nel parlare e nell'ascoltare. Poi però succede qualcosa: «Emigrando dall'oriente, gli uomini capitarono in una pianura nella regione di Sinar e vi si stabilirono» (11,2). L'oriente è nella simbolica biblica la sede del Dio vivente, poiché è il versante da cui sorge il sole con la sua invincibile luce. Gli uomini, inspiegabilmente, volgono le spalle a questa sorgente, forse alla ricerca di qualcosa di diverso, di qualcosa in più. È sempre l'insoddisfazione a trasformare l'uomo sedentario in intrepido migratore. Arrivano così in una terra senza salite né discese: una pianura, un posto comodo e sicuro, dove potersi stabilire. Non è questa migrazione molto familiare a ciascuno di noi? Tutti siamo costantemente alla ricerca di una tana dove poterci finalmente ritirare, di un posto sicuro lontano da imprevisti e possibili guai. Purtroppo questa affascinante meta, da noi avvertita come perfetto ideale, non ci riempie davvero la vita. Restiamo ancora insoddisfatti e agitati. Infatti, gli uomini «si dissero l'un l'altro: 'Venite, facciamoci mattoni e cuciniamoli al fuoco'. Il mattone servì loro da pietra e il bitume da malta. Poi dissero: 'Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo, e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra'» (11,3-4). La gente appena insediata, invece di essere tranquilla e appagata, appare inquieta e bramosa di altro. La terra piana infatti, se da un lato appare tranquilla e placida, dall'altro è capace di dare un'angoscia infinita all'animo umano, avvolgendolo di uno spazio privo di ogni visibile confine. Ecco allora gli uomini gettarsi in una febbrile attività, tutta volta alla ricerca di una statura e di un nome. È proprio così: non ci basta mai essere semplicemente senza problemi; in fondo abbiamo bisogno di costruirci un'identità forte, di trovare un ruolo, di darci un nome. Quante energie nella vita sprechiamo per soddisfare questo legittimo bisogno! Però quante volte lo facciamo percorrendo le vie sbagliate: volgiamo le spalle all'oriente (a Dio), per poi tentare la scalata al cielo con le nostre forze! La città e la torre che gli uomini cercano di costruire è l'immagine perfetta di tutti gli idoli davanti ai quali ci prostriamo, per sfuggire all'insicurezza e alla paura che sperimentiamo nella pianura della vita. Fortunatamente c'è Dio, che vede e provvede: «Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che i figli degli uomini stavano costruendo» (11,5). E poi commenta: «Ecco, essi sono un unico popolo e hanno un'unica lingua; questo è l'inizio della loro opera, e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile» (11,6). Il Signore non toglie immediatamente la libertà all'uomo, anche quando egli la utilizza male, per farsi un nome e per raggiungere il cielo con le proprie forze. Non sarà impossibile all'uomo perseverare nella costruzione della torre. La storia ci mostra quanto sia facile sciupare il tempo e i doni della vita, rincorrendo assurdità che sembrano garantirci un nome davanti agli altri. Ma Dio interviene: «Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro» (11,7). L'azione di Dio non è volta ad assegnare una punizione all'uomo prometeico, che sta comportandosi con orgoglio e superbia. La confusione delle lingue intende condurre l'uomo a gustare il frutto amaro del suo progetto insensato: «Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra» (11,8-9). L'uomo inizia a sperimentare la solitudine e l'isolamento che l'idolatria porta con sé come inevitabile conseguenza. Perché ogni idolatria nasce da un istinto di auto-affermazione e di negazione dell'altro con la sua diversità. Quando infatti ci alieniamo dietro ai nostri idoli, mettendo ogni energia per costruire la torre e per darci un nome, arriva un momento in cui ci sembra di parlare una lingua che nessun altro riesce più a capire. La radice della incomunicabilità che viviamo ovunque sta esattamente nella logica di Babele, in quell'istinto idolatrico che nasce dall'insicurezza e si esprime nel tentativo di sollevarsi sulle punte dei piedi, in modo autonomo ed egoista. Babele ci mostra, con toni drammatici, quale sia il folle progetto in cui tutti siamo coinvolti, l'incessante tentativo di fare a meno dell'Altro e degli altri. Di questa follia siamo tutti complici e conniventi. Questa è in fondo l'unica lingua che tutti quotidianamente parliamo, quella fasulla comunicazione che ci lascia vuoti e spenti nella nostra radicale solitudine.


Pentecoste

All'ombra della torre di Babele, il racconto della Pentecoste diventa estremamente chiaro e luminoso. Quello che gli uomini da sempre tentano di costruirsi con le proprie forze viene donato «all'improvviso» (At 2,2) agli apostoli riuniti «tutti insieme» (2,1) nel comune ricordo del Signore Gesù. Dopo i tragici avvenimenti pasquali, il gruppo dei Dodici avevano sperimentato il morso della tristezza e l'angoscia della solitudine. La scomparsa del Maestro, il tradimento di Giuda, il rinnegamento di Pietro, la prima comunità apostolica era stata drasticamente ridimensionata. Sì, il Signore era apparso, e aveva mostrato loto il suo sorriso, eppure mancava ancora qualcosa! Forse i discepoli non si erano ancora allontanati davvero dalla logica di Babele, come dimostra la domanda che rivolgono al Signore prima della sua Ascensione: «Signore, è questo il tempo nel quale ricostituirai il regno per Israele?» (1,6). Mancava loro la «forza» per vivere tutta la radicalità del Vangelo. Immersi in questo clima, ai discepoli  non rimane altro che rimanere insieme, «assidui e concordi nella preghiera» (1,14), «nell'unione fraterna e nella frazione del pane» (2,42). Si viene a creare, giorno dopo giorno, una situazione di povertà aperta alla speranza, tutta diversa da quella descritta al tempo di Babele. Se allora gli uomini avevano volto le spalle a Dio, ora è proprio ad oriente che gli apostoli fissano ogni attesa e ogni preghiera. Non è una sterminata pianura il luogo della loro comunione, ma semplicemente una «casa» (2,2). Nessuno più cerca più di farsi un nome davanti agli altri, ma tutti vivono nella memoria di quel dolcissimo nome di Dio che il Maestro Gesù aveva fatto conoscere (cf Gv 17,26). Su questa comunità di poveri, irrompe improvvisamente la forza dell'amore di Dio: «Venne dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue» (At 2,2-4). Si realizzano finalmente le parole pronunciate da Gesù durante il suo addio: «Quando verrà il Paràclito, che io vi manderò dal padre, lo Spirito della verità che procede dal padre, egli darà testimonianza di me; e anche date testimonianza, perché siete con me fin dal principio» (Gv 15,26-27). Così tutti i «Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo» (At 2,5) quel giorno riuscirono ad ascoltare le «grandi opere di Dio» (2,11) dalle labbra di quegli uomini prima impauriti e poi ricolmati di forza dallo Spirito Santo. Fu un vero prodigio perché «ciascuno li udiva parlare nella propria lingua» (2,6). Babele è finalmente rovesciata. Mentre la torre si era trasformata in un luogo di confusione e di solitudine, la casa ricolma della memoria e dell'amore di Dio diventa una sorgente di amicizia, comunione, evangelizzazione. Gli uomini non sono più ossessionati dalla necessità di assicurarsi un nome, ma liberi di annunciare il nome del Padre, da cui ogni altro nome riceve vita.


Commenti

anna ha detto…
Quello che lo Spirito Santo può compiere in un essere misero e miserabile è proprio un miracolo d'Amore. Grazie fr. Roberto per le tue parole che risultano sempre parole vere, sgorgate da un cuore capace di ascoltare e di scorgere lo Spirito sottile di Dio tra Sillabe e Parole della Scrittura