IV Domenica del Tempo di Pasqua – Anno B

Letture: At 4,8-12 / Sal 117 / 1Gv 3,1-2 / Gv 10,11-18


TROPPO BELLO!



Stop, fine della apparizioni! Con sapienza e puntualità, la liturgia della Chiesa interrompe l'ascolto dei vangeli nei quali si raccontano gli episodi in cui il Risorto è apparso ai discepoli, proprio a metà del tempo di Pasqua. Lo fa ad imitazione del Maestro, che solo per poco tempo e ad alcuni testimoni si è mostrato vivo dopo la sua risurrezione. Lo fa perché anche noi, come ogni generazione cristiana, non abbiamo tanto bisogno di vedere segni, quanto di credere nella Parola di salvezza che si è manifestata nella carne di Gesù di Nazaret. Oggi contempliamo il Signore come «buon pastore» (Gv 10,11) per imparare a camminare dietro a lui come discepoli consapevoli e amati, capaci di ascoltare e preferire la sua parola di verità ad ogni altra voce che ci chiama.


Mercenari e mercede

Forse non ci garba troppo l'idea di essere rappresentati come delle pecore. C'è qualcosa di antipatico e di negativo in questa immagine. La pecora ci sembra un po' stupidotta, con quel suo incedere ignaro e distratto, secondo la perfetta descrizione del poeta: 'Come le pecorelle escon dal chiuso a una, a due, a tre, e l'altre stanno timidette atterrando l'occhio e 'l muso; e ciò che fa la prima, e l'altre fanno, addossandosi a lei, s'ella s'arresta, semplici e quete, e lo 'mperché non sanno' (Purgatorio, III). Eppure siamo proprio così: costretti ogni giorno a camminare seguendo qualcosa o qualcuno, influenzati, nel nostro avanzare, da molto cose che sono dentro e attorno a noi. Gesù si definisce come il pastore «buono» che «dà la propria vita» per noi, sue «pecore» (10,11). Per farlo si mette in aperta contrapposizione alla figura del «mercenario» (1,12) che «non è pastore e al quale le pecore non appartengono» (10,12). Il mercenario è un pastore pagato, che non è veramente interessato alle pecore, ma al guadagno. Perciò quando si trova di fronte a qualcosa che non vale il prezzo del suo servizio, inevitabilmente fugge. C'è sempre qualcosa che supera il valore di un servizio, quando è fatto per ricevere una ricompensa. Qualunque cosa compiuta per ottenere qualcos'altro è sempre un'opera mercenaria. Dobbiamo riconoscere che ci sono molti mercenari nella nostra vita di ogni giorno, e con estrema facilità li seguiamo incautamente, illudendoci di trovare in loro l'amore e la vita che desideriamo. Invece rimaniamo delusi e abbandonati nel momento della prova, perché il mercenario «vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde» (10,12). Esistono tanti rapporti mercenari che ingaggiamo o accettiamo pavidamente di vivere. Non solo quelli con i grandi 'mercenari' della nostra società che ci pascolano solo per il loro tornaconto personale. Anche le relazioni più preziose della nostra vita, con i genitori, gli amici, la moglie o il marito, il fidanzato o la fidanzata, scadono spesso in rapporti mercenari. E con amarezza impariamo che nella vita tutto si paga, tutto ha un prezzo. Le persone – anche quelle più speciali – sono capaci di amare se hanno qualcosa in cambio. E quando non lo ricevono smettono di amare, cessano di esserci accanto. Questa è una esperienza dolorosissima, triste che tutti facciamo nella nostra vita. Un'esperienza di vuoto e di solitudine: 'Ognuno sta solo suo cuore della terra trafitto da un raggio di sole, ed è subito sera'. (S. Quasimodo). 


Pastori e pietre

Esiste qualcuno che ci ama semplicemente per noi stessi. Non per un po' soltanto, e non in vista di una ricompensa. Ci ama e basta! È Dio, il cui volto è stato pienamente illuminato dalle parole del Figlio diventato uomo: «Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, o do la mia vita per le pecore» (10,14-15). Il «Pastore grande delle pecore, il Signore nostro Gesù» (Eb 13,20) ritiene che la sua vita sia meno importante della nostra vita. Ci ama realmente e personalmente. Di fronte a questo amore non possiamo che esclamare anche noi: «Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1Gv 3,1). La forza di questo pastore sta tutta nella qualità dell'amore che egli è capace di vivere verso tutti, come spiega lo stesso Gesù: «Per questo il padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo» (Gv 10,17). La capacità di dare la vita è il distintivo di un amore autentico e di una estrema libertà interiore di fronte agli ostacoli che sempre l'amore conosce: «Nessuno mi toglie la vita: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo» (10,18). Ascoltare la voce di questo pastore e seguirlo nel cammino di vita che ci propone è senz'altro bellissimo, ma difficile. Pietro – e con lui tutti gli altri discepoli – prima di diventare pecore fedeli (e dunque pastori) hanno inciampato sull'estrema mitezza del Pastore che si è lasciato inchiodare sulla croce. Prima di annunciare la parola buona del Vangelo, l'hanno «scartata» come si fa con una «pietra» (At 4,11) inutile. Tuttavia, dopo la risurrezione del Maestro, il loro cuore è stato «colmato di Spirito Santo» (4,8) e si sono convinti che «in nessun altro c'è salvezza» (4,12) all'infuori del «buon pastore» che «dà la propria vita per le pecore» (Gv 10,11). Accogliere il pastore buono e rinunciare ai mercenari richiede attenzione e disponibilità, da rinnovare quotidianamente, esponendoci alla fatica del discernimento e alla gioia dell'ascolto. Senza un cuore desto e vigile, fortificato dalla preghiera e sostenuto dalla grazia dei sacramenti della fede, la bella notizia del pastore buono diventa presto una minuscola pietra su cui anche i nostri passi inciampano. Solo lo Spirito del Risorto può farci vivere nella luce della verità e nella memoria del «grande amore» che ci rende «figli» solo «di Dio» (1Gv 3,1). Infatti «non vi è sotto il cielo, altro nome dato agli uomini, nel quale è stato stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12).


Troppo bello!


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