III Domenica - Tempo di Quaresima - Anno B

Letture: Es 20,1-17 / Sal 18 / 1Cor 1,22-25 / Gv 2,13-25


FUORI



Dopo averci condotto nella silenziosa povertà del deserto (I domenica) e poi sul mistico monte della trasfigurazione (II domenica), oggi la liturgia imprime un'accelerazione al cammino quaresimale portandoci direttamente nell'atrio del tempio, il luogo sacro di incontro tra Dio e l'uomo. Ma è un Maestro profondamente adirato, quello che il Vangelo di Giovanni ci presenta, un Gesù letteralmente divorato dallo zelo per Dio che con le sue parole e i suoi gesti ci costringe a vivere un momento di sincera purificazione, prima di poter accedere alle prossime feste di «Pasqua» (Gv 2,13). La stessa preghiera di colletta lascia intuire il carattere decisivo di questa liturgia domenicale, facendoci domandare al Padre che il suo amore pieghi il nostro cuore ai comandamenti di vita e che il nostro cuore smetta di essere un mercato abitato dall'egoismo, per divenire finalmente un «tempio vivo» aperto al «dono dello Spirito» di «amore» (cf colletta Anno B).

Fuori dal mercato

Salito a Gerusalemme per la festa di Pasqua, Gesù «trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e là seduti i cambiamonete» (2,14). Siamo soltanto all'inizio del Vangelo di Giovanni,  il Maestro ha appena restituito ad una festa di matrimonio la gioia del vino (cf 2,1-12), ma già il clima precipita in una crisi profonda. Vedendo l'atrio del tempio diventato un emporio del sacro, la volontà di Gesù si accende di quella stessa ira che sconvolgeva il cuore dei profeti: «Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi» (2,15). Perché il Signore se la prende tanto con i mercanti? Che cosa contesta? Gesù disapprova radicalmente un modo di concepire il rapporto con Dio fondato su una logica di mercato,  e non sull'amore che vive di libertà e di gratuità. Né più né meno dello strazio che prova un genitore vedendo un figlio amato rubargli di nascosto i soldi dal portafoglio oppure simulare affetto per ottenere qualcosa in cambio. Ecco quello che vede il Signore Gesù, entrando nell'atrio del tempio: i gesti di un popolo che non ha ancora capito di poter vivere una dignità e una responsabilità filiale davanti a Dio. Gesù si lascia divorare dallo zelo e dall'ira perché conoscendo bene «quello che c'è nell'uomo» (2,25), sa che il modo di vedere Dio può condizionare tutti i modi di vedere l'uomo e, quindi, di vivere tutti i gesti della vita quotidiana. Non possiamo davvero sentirci estranei a questo fraintendimento, noi cristiani. Anzi, proprio per il fatto di conoscere «la stoltezza» (1Cor 1,25) di un Dio «crocifisso» (1,23) per noi, più di tutti gli altri uomini possiamo comportarci da figli viziati e immaturi, vivendo solo la superficialità di un rapporto autentico con il Vangelo, con la Chiesa, con il mondo. Pensiamo soltanto a quante preghiere, quante liturgie, quanti ritiri, sono state un'occasione per restare nel nostro egoismo, anziché per trasformarci in creature nuove! 


Fuori dalle illusioni

Certo, seguire il Vangelo fino in fondo è scomodissimo. Un affare rischioso e compromettente. Perché l'amore infinito annunciato da Cristo sceglie di non fermarsi mai, nemmeno davanti al rifiuto. Questo, in sintesi, l'apostolo cerca di ricordare alla comunità di Corinto, un po' troppo agitata e sedotta dalle manifestazioni più esteriori della vita di fede. L'amore, scrive Paolo, può assumere un volto orribile, può diventare «crocifisso» (1,23), dall'odio, dall'indifferenza, dalla persecuzione. E la scelta di non sottoporlo ad altri criteri più morbidi e accomodanti, può apparire una «debolezza» e una «stoltezza» (1,25) gli occhi del mondo che sempre cerca «segni» e «sapienza» (1,22) per sfuggire ai costi e alla fatica dell'amore. Ma noi sappiamo che questa radicale rinuncia ad ogni forma di potere sull'altro –   un vero e proprio «scandalo» (1,23) per il nostro io narcisista e positivista – è in realtà «potenza di Dio e sapienza di Dio»(1,24), cioè è un'arte di costruire la propria umanità su una logica «più forte» di qualsiasi altra logica «degli uomini» (1,25). Come fare, allora?


Fuori dalla schiavitù

Forse ci serve tornare alla nuda e semplice bellezza della Legge, che le dieci parole donate da Dio ad Israele nel deserto riassumono magistralmente. Siamo infatti splendidi e liberi, dice oggi la nostra cultura. Emancipati, raffinati e intelligenti, viviamo una stagione straordinaria della storia umana. Infinite occasioni e risorse sono diventate ormai accessibili alle nostre mani, intellegibili alla nostra mente, fruibili dalla nostra libertà. Eppure la vita, nel suo insieme, ci sfugge sempre. Forse più di quanto accadeva in altre epoche, meno potenti, meno dotate, meno libere. Ci sfugge l'appuntamento con la gioia profonda, con la vera  pace, con l'armonia e con la giustizia. Non sarà che abbiamo forse smarrito il foglietto delle istruzioni per vivere? Non sarà per questo che anche la nostra fede rischia di diventare talvolta un grottesco commercio di parole, formule e gesti, anziché la naturale e convincente espressione di un spirito profondamente abitato da Dio Padre? Forse dobbiamo riconoscere che stiamo provando a raggiungere l'obiettivo della vita – che è sempre l'amore – trascurando di osservare le più elementari e quotidiane sue esigenze: «Non avere altri dèi al di fuori del Dio che ti ha donato la libertà»  (1), «Non vivere con Dio una relazione superficiale» (2), «Ricordati di fermarti e di benedire la tua vita nel giorno di shabbat: solo così i tuoi giorni saranno lunghi per sempre» (3), «Non disprezzare tuo padre e tua madre; riconosci a loro il giusto valore che hanno avuto per la tua vita» (4), «Non uccidere, in alcun modo» (5), «Non vivere in modo ambigui i gesti dell'amore» (6), «Non rubare, perché la vita è un dono» (7), «Non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo» (8), «Non desiderare né le cose, né le persone del tuo prossimo, perché il Padre non si dimentica di nessuno» (9,10). 


Queste parole furono pronunciate da Dio, per salvare un popolo appena uscito dalla schiavitù da una schiavitù ancora peggiore: quella da se stessi e dall'idolatria della propria libertà. Oggi sono ricordate e rivolte a noi, che possiamo accoglierle nuovamente come figli. Forse sono l'indispensabile 'bugiardino' smarrito che si serve e ci manca. L'indicazione semplice, profonda, concreta di quegli argini entro cui può scorrere il fiume della nostra vita per restare benedetto. Talvolta infatti nella vita bisogna soltanto (!) ricominciare. Capita di aver corso tanto, costruito molto, trafficato ancora di più, finché all'improvviso accade qualcosa che fa crollare tutto ciò che pensavamo di aver fabbricato e che speravamo potesse durare per sempre. In un istante vanno in fumo i «quarantasei anni» (Gv 2,20) del lavoro delle nostre mani. Ma la vita (e la morte) si compiono in uno spazio di tempio più breve. Il Signore nel Vangelo ci assicura che sono sufficienti «tre giorni» (2,20) a Dio per darci e ridarci la vita. Tutto questo profuma già di Pasqua, la festa ormai vicina.


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