Martedì - II settimana di Avvento

Letture: Is 40,1-11 / Sal 95 / Mt 18,12-14


CHE VE NE PARE?



Una parola di grande consolazione ci giunge oggi dalle Scritture sacre. E una domanda, che talvolta possiede maggior forza di qualsiasi risposta andiamo cercando: «Che ve ne pare?» dice il Maestro Gesù ai discepoli che faticano a credere come sia davvero e soltanto l'attenzione a ciò che è «piccolo» a costruire ciò che è «grande nel regno dei cieli» (Mt 18,4). Ascoltare gli oracoli di speranza del Deutero Isaia e la splendida immagine evangelica del pastore che va in cerca della pecora «perduta» (18,12) significa, nel tempo di Avvento, rintracciare le ragioni profonde dell'Incarnazione di Dio e, di conseguenza, restituire vigore alla nostra attesa della sua venuta, affinché possiamo accogliere «con sincera esultanza la gloria del Natale» (colletta). Il popolo, provato duramente dall'esperienza dell'esilio, faticava a rialzare lo sguardo verso la speranza. Come cantare i canti di Sion in terra straniera? Il profeta prova a riaccendere la fiducia, annunciando la fine della «schiavitù» (Is 40,2): Il Signore verrà; tra poco si «rivelerà» la sua gloria «e ogni uomo la vedrà» (40,5). È sufficiente preparare la strada per il suo ingresso, colmando le depressioni e smussando gli altopiani della nostra autosufficienza, poi si sarà la venuta del Signore: «Ogni valle sia colmata, ogni monte e colle siano abbasati» (40,4). Quasi avvertendo la difficile ricezione di queste parole di speranza, il profeta trova poi un'immagine più semplice e più potente per donare speranza ad Israele, e grida: «Ogni uomo è come l'erba. Secca l'erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura sempre» (40,6.8). Sì, è vero siamo come l'erba, e ci fa bene ricordarlo, perché proprio a noi, piccoli e fragili lineamenti di vita, Dio rivolge il suo volto. Siamo preziosi ai suoi occhi, come lo sono le pecore per un pastore buono. 


Con la stessa immagine bucolica, il Signore cerca di condurre i suoi discepoli nel mistero della chiesa e del regno, aiutandoli a riflettere sulla misericordia che non si arrende mai davanti a nessuna distanza: «Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta?» (Mt 18,12). In queste parole si rivela la solidità e la fedeltà dell'amore di Dio per noi. In un mondo tentato di vivere superficialmente e senza alcuna progettualità i rapporti umani, questa parola è come un gigantesco fascio di luce capace di rianimare i desideri e i sentimenti più nobili assopiti dentro di noi. E ci aiuta a comprendere perché la Chiesa celebra ancora –  con nuova e antica semplicità – il mistero dell'Avvento come tempo di attesa della venuta del Signore. È proprio la Parola di Dio che ci autorizza a restare fermi e sereni nell'attesa della salvezza di Dio. È il sigillo dello Spirito nei nostri cuori che ci aiuta a credere che il Padre non avrà pace fino a quando tutte le nostre vite non saranno presenti attorno a lui, nel banchetto eterno della vita. È Avvento non perché lo dice il sacro calendario della Chiesa, ma perché il Signore non può non venire a salvare questo mondo e questa umanità che tanto ama. Assicura Gesù che «il Padre non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli» (18,14). Ed è di straordinaria bellezza contemplare la mitezza con cui compirà quest'opera. Egli non è certo del risultato; non sa come andrà a finire. Spera: «Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà più che per le novantanove che non si erano smarrite» (18,13). Sì, Dio spera. Che questo Natale sarà meglio dei precedenti. Che questa volta la nostra umanità si lascerà trovare dal suo amore. 


Anche noi forse possiamo guardare con occhi diversi la nostra umanità. Soprattutto quei piccoli angoli bui e perduti, che volentieri nascondiamo e invece sono i luoghi sacri dove si deve compiere la nostra salvezza. Solo così, a contatto col nostro 100%, possiamo attendere nella gioia il Natale del Signore. L'esultanza va costruita con realismo, a partire da una piena e misericordiosa attenzione a ciò che è e non a ciò che vorremmo che fosse. Alla realtà e non alle illusioni. Certo, occorre accettare di essere come l'erba e sperare che la tenerezza di Dio ci visiti e ci doni ancora vita. Proprio come fa l'erba dei campi che attende come una risurrezione l'arrivo del giorno nuovo con tutti i suoi regali.


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