Giovedì - I settimana di Avvento

Letture: Is 26,1-6 / Sal 117 / Mt 7,21.24-27


(FAR) FARE (AL)LA PAROLA



Nel tempo di Avvento siamo sapientemente ammaestrati dalla liturgia ad esercitare – e dilatare – il desiderio che il Signore venga a visitarci con la sua salvezza. Marána thá (espressione in aramaico, che significa: Signore nostro, vieni; cf 1Cor 16,22): è il ritornello che non ci stanchiamo di cantare e pregare. E in fondo al nostro cuore crediamo che questo grido sarà amorevolmente ascoltato da Colui che «ha condiviso in tutto, eccetto il peccato, la nostra condizione umana» (preghiera eucaristica VI). Il Signore è venuto; il Signore verrà. Il Signore viene. Però questa cristiana speranza non deve né indurci, né condurci a quell'inerzia spirituale che talvolta si impadronisce di noi e che, purtroppo, sappiamo mistificare molto bene nascondendola sotto i drappi dell'umiltà e della devozione. Magari dicendo insieme al salmista: «È meglio rifugiarsi nel Signore che confidare nell'uomo» (Sal 117,8). E così disertiamo il compito di coltivare la terra della nostra umanità, col pretesto che sarà la visita del Signore a restituirle dignità e fecondità.


Il Vangelo oggi ci percuote e ci scuote, come fanno gli agricoltori quando bacchiano gli ulivi per far cadere dai rami le olive mature: «Chiunque ascolta queste mie parole e non le mette in pratica – dice il Signore – è simile a un uomo stolto che ha costruito la sua casa sulla sabbia» (Mt 7,26). Non è sufficiente ascoltare, bisogna fare quello che si è ascoltato, altrimenti viviamo solo l'illusione di essere discepoli e non la realtà che consiste nell'assumere progressivamente la vita del Dio che ci dona la sua Parola. In questo perentorio richiamo alla coerenza tra l'ascoltare e il fare, sarebbe superficiale cogliere soltanto un'esortazione a rimboccarsi le maniche e ad essere più operosi. Anzi, un simile risvolto potrebbe anche risultare soltanto un ulteriore moralismo che si ammassa nella già intasata arteria della nostra coscienza.


Il Maestro Gesù – che vuole venire a nascere nella nostra umanità – ci ricorda che solo un ascolto profondo, che permette al Vangelo di radicarsi dentro di noi, è capace di farci praticare la vita stessa di Dio. L'avvio del Vangelo segnala in modo sufficientemente chiaro che il problema non è il fare o il non fare, ma il fare «la volontà del Padre» (7,21), invece che la nostra. Dunque l'atteggiamento che dobbiamo assicurare di fronte all'Avvento del Signore è soprattutto la fedeltà nell'ascolto e nel desiderio di conversione, come percepiamo dagli oracoli del profeta, il quale annuncia che il popolo giusto, quello che potrà entrare nella città forte costruita dal Signore, è quello «che mantiene la fedeltà» (Is 26,2). Non si tratta più di moralismo, ma di realismo. Nella vita infatti sono durevoli soltanto le cose ben radicate, quelle che abbiamo potuto costruire dopo aver affrontato la fatica di scavare e di aver posto solide fondamenta. Soltanto allora, quando il fondamento è solido, ci accorgiamo che anche «l'animo è saldo» e gustiamo il frutto della «pace», perché abbiamo posto nel Signore la nostra «fiducia» (26,3).


La liturgia della parola oggi ci dice che l'Avvento è legato alla nostra capacità di ascoltare la parola di Dio fino a lasciarci condurre per i suoi – concretissimi – sentieri di vita. Spesso crediamo di aver ascoltato la voce di Dio e proviamo a metterla in pratica. E non accade niente, perché niente in realtà abbiamo ascoltato, se non l'eco ambiguo dei nostri desideri di perfezione, o il grido angosciato dei nostri sensi di colpa. Quando invece il nostro cuore riesce ad ascoltare la parola e il desiderio di Dio può anche morire di timore, ma non può non gustare i frutti belli e luminosi dello Spirito. Proviamo a fare questa semplice verifica, chiedendoci: 'Qual è l'ultima cosa che il Signore mi ha detto di fare?'.


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