XXXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Letture: Pr 31,10-13.19-20.30-31 / Sal 127 / 1Ts 5,1-6 / Mt 25,14-30

  

NON APPARTENIAMO ALLA NOTTE



Meno male che c'è questa domenica; che ci scuote e ci sveglia! Per fortuna che nel Vangelo il Maestro ci ha lasciato questo insegnamento, limpido e crudo, che ci impedisce di pensare, o peggio ancora, di vivere un cristianesimo di ripiego, che ci autorizza a seppellire un po' della nostra splendida e fragile umanità. Nella parabola cosiddetta «dei talenti» (Mt 25,15) il padrone rimprovera senza mezzi termini il servo che ha nascosto «sotto terra» (25,25) il talento ricevuto: «Servo malvagio e pigro!» ed emette una temibile sentenza su di lui: «Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha dieci talenti» (25,28). Di fronte a queste parole nasce un certo timore, ma anche una legittima obiezione. Ma chi è quel pazzo che non desidera aumentare i talenti ricevuti?! Chi, almeno coscientemente, non vuole allargare la tenda della propria vita, aumentando il numero dei suoi beni? Nessuno, credo. Siamo in fondo tutti grandi amanti di lotterie e grattaevinci! E allora dove sta il problema? Perché ieri come oggi capita di non riuscire a vivere, coltivando e trasformando i doni ricevuti dalla vita, cioè da Dio?! In che senso potremmo essere, magari senza accorgercene, persone che preferiscono nascondere, anziché investire i doni ricevuti? Le letture ci aiutano a riconoscere alcune tentazioni capaci di bloccare e deviare il cammino della nostra vita.


Per paura

San Paolo ci dice che esistono delle tenebre a cui possiamo appartenere, quelle della paura e dell'angoscia che ci assale facilmente, durante il viaggio della vita. Chiamandoci all'esistenza, Dio infatti ci ha gettati dentro un grande mistero, nel quale siamo tutti connotati da una profonda insicurezza, terribilmente fragili di fronte a chiunque si dimostra capace di prometterci «pace e sicurezza» (1Ts 5,3). Ma in realtà non esistono porti stabilmente sicuri nella traversata in questo mondo. Nessuna casa, nessuna relazione, nessun conto in banca ci garantisce la vita, che rimane dono e mistero. Anzi, proprio quando cerchiamo di appoggiarci a qualche rassicurante parete, «allora d'improvviso la rovina» (5,3) riesce ad entrare nella nostra casa «come un ladro di notte» (5,2). Per quante polizze e assicurazioni abbiamo firmato, i nostri giorni tendono verso un punto oscuro che non conosciamo, ma che sicuramente inghiottirà il breve percorso che abbiamo costruito in questo mondo. Questa precarietà, che ci fa vivere come equilibristi sopra un filo, sta all'origine di tanti modi di vivere in ritirata, al riparo dai rischi e dalle delusioni, a cui spesso ci rassegniamo.


Per seduzione

Ma non è solo la paura a farci abbassare la qualità di vita, c'è anche il suadente inganno della sensualità, di tutto ciò che attira e ipnotizza i nostri sensi. Il libro dei Proverbi, tessendo l'elogio della donna forte, non esita a dichiarare che tutto ciò che affascina i nostri occhi e seduce i nostri primordiali istinti, in realtà, è un piacere «illusorio» (Pr 31,30). Persino la «bellezza», straordinario riflesso che eleva verso la contemplazione l'animo umano, è un bene «fugace» (31,30) tanto quanto lo è il «soffio» (Sal 143,4) della stessa vita. La donna «forte» è quella che non si espone e non si propone come una collana di «perle» (31,10) da ammirare e possedere, ma stende «volentieri» le sue «mani» e le sue «dita» (31,13.19), tanto al lavoro, quanto al povero. E in questo umile e alacre servizio quotidiano sta la sua bellezza: «La donna che teme Dio è da lodare» (31,30). In un mondo che ama sedurre e lasciarsi sedurre, noi oggi preferiamo la scorciatoia dell'apparire, anziché dell'essere. Anche in questo modo, ahinoi, sotterriamo energie e creatività che potrebbero rendere più umana la nostra storia e magari anche quella del mondo.


Per egoismo

Nella parabola del Maestro Gesù scorgiamo infine un ultimo terreno da cui può germogliare la cattiva abitudine di giocare al ribasso. Si tratta dell'egoismo, che non di rado indossa i vestiti religiosi dell'umiltà: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (Mt 25,24-25). Quanto volte nelle nostre preghiere, o semplicemente nel nostro cuore, abitano questi stessi sentimenti?! Un ingarbugliato e contraddittorio intreccio di giustificazioni (personali) e accuse (a Dio), dietro al quale si nasconde la paura di affrontare – semplicemente – il dono e la responsabilità di vivere fino in fondo la nostra umanità. Così chiamiamo duro Dio e non il nostro cuore; diciamo che la vita è esigente e non invece il nostro cuore «pigro» (25,26); facciamo diventare la «paura» (25,25) insita nella vita un potente alibi per giustificare la nostra incapacità di metterci con fedeltà a servizio di qualcosa o di qualcuno! Infatti la moltiplicazione dei talenti non è una virtù che soltanto le persone forti e volenterose riescono a realizzare. Il Signore, nella sua vita e nei suoi insegnamenti, ci ha insegnato che il principio della moltiplicazione è la con-divisione. Nella misura in cui siamo disposti a condividere quel poco che siamo ed abbiamo, i talenti si moltiplicano, la vita si ingrossa. Solo quando apriamo la porta e accogliamo chi ci sta davanti, non siamo più soli. Solo quando ci mettiamo con mitezza in rapporto ai nostri limiti usciamo dall'inferno della solitudine, e incontriamo gli altri che ci possono perdonare e  accogliere. Solo quando siamo disposti ad accettare la parola e il giudizio di un altro, possiamo uscire dal dedalo pernicioso de nostri ragionamenti. 


Per scuoterci da questo torpore egoista, il Signore ci parla con franchezza, chiamandoci col nome che abbiamo cominciato ad assumere: «Servo malvagio e pigro» (25,26). Nella speranza di suscitare la conversione nella nostra volontà, il Signore ci ricorda che abbiamo in realtà «molto tempo» (25,19) per imparare ad accogliere e restituire il mistero della vita. Però questo tempo dobbiamo ricominciare ad usarlo bene. Adesso, non dopo. Anche perché, in fondo, in questo mondo siamo tutti chiamati a gestire un «poco» che nell'eternità diventerà «molto» (25,21). Il Signore creandoci a sua immagine e somiglianza, si fida di noi a tal punto da consegnarci «i suoi beni» (25,14) e desidera che li moltiplichiamo attraverso l'amore. Se ci pensiamo bene, non abbiamo niente da perdere. Nemmeno quelle quattro cose che crediamo di aver accumulato e messo da parte: la casa, qualche soldo in banca, gli affetti, il cibo i vestiti. Tutte cose importanti, ma più piccole di noi. Non abbiamo portato nulla in questo mondo e niente possiamo portare via nell'ultimo viaggio. La vita è un gioco perfetto: non possiamo perdere nulla, al massimo noi stessi e, assicura Gesù nel Vangelo, se lo facciamo per amore ci troviamo per sempre: : «Chi cercherà di salvare la propria vita la perderà, chi invece la perde la salverà» (Lc 17,33). Utilissime diventano allora le parole dell'apostolo, che ci invita ad assumere la postura dei viventi: «Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri» (1Ts 5,6). «Fuori nelle tenebre, sarà pianto e stridori di denti» (Mt 25,30), ma dentro c'è il Signore che ci illumina e ci ama «secondo la capacità di ciascuno» (25,15). Vivendo con lui e come lui, possiamo restare «figli della luce e figli del giorno» (1Ts 5,5), prendendo parte alla «gioia» (Mt 25,21) dell'amore!


Commenti