I Domenica di Avvento – Anno B

Letture: Is 63,16-17.19; 64,2-7 / Sal 79 / 1Cor 1,3-9 / Mc 13,33-37


GIÙ DAL LETTO!



Inizia il tempo di Avvento. Un nuovo anno liturgico si offre a noi per aiutarci ad incontrare, ancora una volta, il mistero di Cristo Signore, e per farci diventare discepoli illuminati e luminosi, nelle oscurità tenaci del nostro tempo. 


Portieri di notte

La parabola evangelica ci fa comprendere esattamente in quale situazione ci troviamo: «È come un uomo, che è partito dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai suoi servi, a ciascuno il suo compito, e ha ordinato al portiere di vegliare» (Mc 13,34). Già, è vero: il Signore è andato via, dopo essere venuto «nell'umiltà della nostra natura umana», quando «portò a compimento la promessa antica, e ci aprì la via dell'eterna salvezza» (prefazio di Avvento). Ma prima di sottrarsi definitivamente ai nostri sensi, ci ha costituito suoi aiutanti – servi – affidandoci la sua casa, che è la chiesa, che è il mondo. In questa immensa abitazione, ciascuno ha un compito preciso, soprattutto il portiere che, durante la notte, non può certo permettersi di sonnecchiare o, peggio ancora, di lasciare incustodito l'atrio di ingresso. Così stanno le cose, che ci piaccia o no! La fiducia di Dio nei nostri confronti è talmente gigante che ha deciso di affidarci la responsabilità di custodire il dono e il mistero della creazione. Non è una nostra scelta, e quindi non è anzitutto una nostra opera da realizzare. È un dono che abbiamo ricevuto e che chiede di essere vissuto con responsabile e fedele amore. Ma un portiere di notte fa un lavoro difficile, che si espone a molti imprevisti: la stanchezza, la noia, la tentazione di 'evadere' dall'abitudinario servizio. Allo stesso modo anche noi, nel tentativo di custodire la nostra umanità e quella del nostro prossimo, subiamo il fascino ipnotico della notte, abbandonandoci al sonno della coscienza e praticando il male, che nell'oscurità moltiplica la sua non-vita. Il Maestro Gesù, sapendo quanto sia «debole» la nostra «carne» (14,38) e facili i nostri «occhi» ad appesantirsi (cf 14,40), ci ha lasciato un invito che nel Vangelo di oggi risuona per ben tre volte: «Vegliate!» (13,33.35.37). E spiega: «Non sapete quando il padrone di casa ritornerà, se alla sera o a mezzanotte o al canto del gallo o al mattino; fate in modo che, giungendo, all'improvviso, non vi trovi addormentati» (13,35-36). La prima accusa che l'Avvento ci muove è quella di essere discepoli addormentati, di aver permesso al nostro desiderio profondo di consolarsi con surrogati di felicità, di aver cominciato ad attingere la vita da fonti prosciugate, diventando «avvizziti come foglie» (Is 63,5).


Sonnolenti di giorno

Non è facile riconoscere questo decadimento. Non è facile accorgersi di essere caduti in un sonno profondo. Siamo così inclini e avvezzi ad abbassare il tiro, a giustificarci anziché farci perdonare, a mascherarci anziché manifestarci, che spesso non riusciamo più ad aprire gli occhi sulla nostra vera vita, quella rivestita ormai della «grazia di Dio» (1Cor 1,4) e arricchita di «tutti i doni, quelli della parola e quelli della conoscenza» (1,5). È il dramma vissuto e narrato tante volte dalle Scritture Sacre, ogni volta che Israele dimenticava quel Dio che fa sempre «tanto per chi confida in lui» (63,3). I deportati in Babilonia, tornati nella terra di Canaan, si rendono conto che il motivo del loro esilio non era stato la cattiveria del potente impero babilonese, ma l'oblio della memoria e della fiducia nel Signore. Dice il profeta Isaia a nome di tutti: «Nessuno invocava il tuo nome, nessuno si risvegliava per stringersi a te; perché tu avevi nascosto da noi il tuo volto, ci avevi messo in balia della nostra iniquità» (63,6). Umiliato, confuso e contrito, il popolo riesce finalmente a guardarsi in faccia con profondo realismo: «Siamo divenuti come una cosa impura, e come panno immondo sono tutti i nostri atti» (63,5). Questa è la seconda pretesa dell'Avvento, dopo averci invitato ad aprire gli occhi: farci guardare attentamente e senza paura ciò che ci sta dinanzi, cioè la nostra storia con le sue glorie e le sue miserie. Proprio una cattiva messa a fuoco di noi stessi spiega l'esistenza (e l'insistenza) di molti nostri vizi, la causa profonda di tante nostre liturgie quotidiane che ci appagano solo per qualche istante ma ci lasciano vuoti profondi nell'anima. Proprio questa cecità di fronte e noi, ci fa dimenticare chi siamo e cosa siamo chiamati ad essere! E così, mestamente, ci adattiamo a tutto e a tutti, senza più il coraggio di uno sguardo alto sulle cose, senza l'azzardo di un desiderio grande sulla nostra vita. Tiriamo a campare e a sbarcare il lunario come possiamo, perché questo mondo fa un po' schifo, ma siccome nessuno lo dice è meglio tacere. E così, tutti, insieme, soffochiamo il grido che ci abita, che è lo spartito più prezioso che Dio ci ha dato la libertà di suonare, creandoci suoi figli. Quel grido che Isaia raccoglie e offre al cielo, a nome di un popolo esausto e triste che, forse come noi, non riesce più nemmeno a sperare: «Perché, Signore, ci lasci vagare lontano dalle tue vie e lasci indurire il nostro cuore, così che non ti tema? Se tu squarciassi i cieli e scendessi!» (63,17.19).


Giù dal letto!

Se questa domenica la Parola riesce a farci aprire gli occhi e a donarci la libertà di vedere e gridare lo stato della nostra vita, per noi comincia l'Avvento, la santa venuta del Signore. Se ci lasciamo giudicare dalla verità buona delle Scritture, allora la fine di questo autunno può dare nuovo inizio alla nostra vita cristiana. Se ci lasciamo dire da Dio quanto siamo pietosamente ciechi e sordi al destino di santità che portiamo scritto nel cuore – invincibile come il sangue nelle vene – allora ci conviene scendere immediatamente dal letto delle sicurezze e delle comodità. Perché c'è un doppio grido che solo noi possiamo rivolgere a Dio. Il primo è quello che deve riconoscere le ombre terribili presenti nella nostra libertà: «Abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli» (63,4). Ma il secondo è addirittura un imperativo che non dobbiamo aver paura di scagliare verso il cielo, come una freccia acuminata e ambiziosa: «Ritorna per amore dei tuoi servi, per amore delle tribù, tua eredità» (63,17), «Dio degli eserciti, ritorna!» (salmo responsoriale). Un padre non può restare insensibile di fronte al grido dei suoi figli: non appartiene ai suoi diritti. Appartiene ai suoi doveri ascoltare questo grido «continuamente» (1Cor 1,4) e «sino alla fine» (1,8). E Dio è «nostro padre, da sempre» e per sempre il «nostro redentore» (Is 63,16). Con un grido inizia il tempo santo dell'Avvento. Con occhi che si aprono, voci che si rianimano, cuori che si scaldano, al pensiero che «non manca più alcun carisma a voi, che aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo» (1Cor 1,7). Se infatti ricominciamo ad aspettare il ritorno del Signore non ci manca proprio niente. Perché se aspettiamo la sua sicura venuta, stiamo camminando verso di lui, tendiamo al suo ritorno.


Commenti

Anonimo ha detto…
Grazie di cuore!