XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Letture: Is 45,1.4-6 / Sal 95/ Ts 1,1-5 / Mt 22,15-21

  

IN FACCIA A NESSUNO


No, il titolo di questa domenica non è un inno all'intolleranza o al relativismo (due affascinanti mode del presente), ma un elogio del discernimento, cioè della capacità di esaminare con saggezza il velo della realtà. Sembra proprio questa l'indispensabile arte che il Vangelo di oggi vuole ridestare in noi: l'attitudine a valutare le cose della vita assegnando a ciascuna il suo più opportuno ed autentico significato e soprattutto sapendo collocare la storia umana al di là di se stessa, dentro la misteriosa cornice del disegno di Dio.


Libertà

Che fu Ciro? Un potente re persiano che occupò la regione iraniana (Mesopotamia) sconfiggendo i Babilonesi (nel 549 a.C.) permettendo agli Ebrei esiliati di tornare nella terra di Canaan (cf Esd 1). Vero! Agli occhi di Dio però questo potente della storia antica fu anche qualcos'altro: uno strumento utile – essenziale? – al suo disegno di salvezza. Ciro non conosceva il Dio di Israele, eppure proprio attraverso di lui il Signore dimostrò – soprattutto ad ad Israele – di essere l'unico Dio vivente, colui al di fuori del quale «non esiste dio» (Is 45,6). Ciro, a sua insaputa, collabora con il Dio che desidera «abbattere» i nemici, «sciogliere» (45,1) le difficoltà del suo popolo, «per amore di Giacobbe» (45,4). Ma un Dio così (che si dichiara l'unico) che effetto fa alla coscienza dell'uomo contemporaneo? Oggi preferiamo ipotizzare e sostenere un raffinato politeismo – se non teorico almeno pratico – che rispetti e tuteli la sensibilità di ciascuno. Peccato che in questo clima di grandi aperture, spesso venga a mancare proprio il rispetto per la dignità dell'altro. Invece è proprio il monoteismo la forma religiosa più attenta alla diversità, perché garantisce l'assenza di figli di un dio minore. C'è poi un secondo aspetto scomodo nel volto di questo Dio che sceglie e utilizza l'uomo per i suoi disegni: l'invadenza nello spazio della nostra libertà! Il Dio biblico, fin dai tempi antichi, si rivela come una Persona sapiente che – proprio come noi – deve affrontare la fatica di valutare e decidere che cosa è bene e che cosa e male, che cosa serve e che cosa no. Non ogni cosa, infatti, è buona: la realtà non è una struttura binaria, una fotografia in bianco e nero, ma un complesso intreccio di significati e apparenze da interpretare continuamente.


Attenzione

Come fare a discernere? Tenendo continuamente gli occhi spalancati sulla realtà: il discernimento è un'arte spirituale che si fonda sull'attenzione fedele e delicata ad ogni segno attraverso cui il mistero di Dio e quello dell'uomo si manifestano nella storia. Paolo, insieme a «Silvano e Timoteo» (1Ts 1,1), si mostra capace di questa attenzione, custodendo i fratelli della Chiesa di Tessalonica nel cuore con speciale affetto: «Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l'operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo» (1,2-3). E conclude: «Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui» (1,4). Paolo era così tanta attento alle persone che riusciva a vedere nella loro vita i segni dell'amore e della chiamata di Dio alla salvezza. La sua ricca sensibilità ci mostra i frutti del discernimento che si manifestano come capacità di vedere le cose in profondità, cogliendo quali fili legano la trama delle vicende umane all'opera di Dio.


Convinzione

Il discernimento è, infine, una «profonda convinzione» che si esprime nel volto per nulla aggressivo della «pace» e della «grazia» (1,1). Questo tratto splendido della nostra umanità si rivela nel modo con cui il Maestro quei «farisei» (Mt 22,15) che un giorno mandarono «i propri discepoli» (22,16) a porgli una tendenziosa domanda, nel tentativo di «coglierlo in fallo nei suoi discorsi» (22,15). L'accusa si maschera subdolamente di lusinga: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia nessuno. Dunque, de' a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» (22,16-17). Gesù si sottrae alla trappola: non indossa né i panni del rivoluzionario sovversivo (non paghiamo alcun tributo agli invasori romani), né quelli dell'ingenuo e pavido credente (paghiamo e stiamo zitti). La sua risposta è geniale ed esprime una straordinaria libertà interiore. Anzi, la sua non è nemmeno una risposta, ma un ulteriore domanda che diventa una sfida lanciata ai suoi furbetti interlocutori. Una sfida a chi vede meglio e più profondamente le cose: «Questa immagine e l'iscrizione, di chi sono?». Gesù tiene in mano la moneta, pienamente libero da essa e ci costringe a verificare se noi lo siamo altrettanto. Proviamo – almeno idealmente – a tenere in mano le cose per cui ogni giorno viviamo. E chiediamoci: «Di chi sono?», perché qui sta il cuore del Vangelo di questa domenica. Noi dedichiamo un sacco di energie e di tempi della nostra vita al culto di cose che appartengono alle economie di questo mondo e non al Dio della vita! Siamo talmente attratti e sedotti dagli idoli, che nemmeno ci accorgiamo più di venerarli. La nostra società, effimera ed estetica, ci abitua ogni giorno a guardare e a desiderare, sollecitando i nostri sensi e i nostri istinti. Soprattutto quelli più sensuali e superficiali. Ma c'è un'immagine più misteriosa e nascosta che ogni cosa e, soprattutto, l'umanità porta impressa in sé. È l'appartenenza al Dio creatore e salvatore, il marchio di fabbrica divino che ogni cosa rivela e nasconde. Questo filo realissimo e invisibile ad uno sguardo distratto è la vera trama della realtà e della storia, che però non riusciamo più a cogliere, talmente coinvolti nella stagione peggiore dell'ateismo: l'indifferenza a quello che Dio può essere o a tutto ciò che può implicare una certa relazione con lui. Diventa un potente antidoto la conclusione del Vangelo: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (22,21). Il Maestro Gesù non intende operare alcuna demonizzazione o semplificazione della realtà. Soltanto una precisa e utile chiarificazione: l'uomo è di Dio, e non può (quindi non deve) appartenere a nessun altro. Il Vangelo ci riapre una strada di libertà: camminare nelle strade del mondo senza piegare facilmente le ginocchia ad ogni idolo che ci chiede di entrare nell'attico del nostro cuore (soldi, successo, salute, carriera, famiglia, bellezza). Esiste un modo assolutamente evangelico di essere – come Gesù – capaci di non guardare «in faccia a nessuno», cioè di ritenere solo un volto come lo specchio nel quale riconoscere la nostra verità: il volto di «Dio Padre» (1Ts 1,1). Esiste la possibilità di essere così certi di appartenere a Dio e al suo amore da camminare a testa alta e ad occhi aperti nei sentieri della vita, senza entrare in paradisi artificiali o nei tanti paesi dei balocchi che ogni giorno creiamo e abitiamo. Esiste la possibilità di disapprovare senza disprezzare, di amare senza annullarsi, di aprirsi a tutto e a tutti senza confondersi con nessuno, di abitare l'occidente impazzito del terzo millennio senza paura.


Essere cristiani non significa avere e brandire certezze, con granitica fierezza. Piuttosto lasciare che una sola certezza – il mistero dell'amore infinito di Dio – dia al nostro cuore la libertà di valutare ogni cosa con sapienza, avendo un criterio sicuro per aprirci all'incertezza della storia, profondamente convinti che «quello che è di Dio» (Mt 22,21) riposa sicuro e amato nelle sue mani «con potenza e con Spirito Santo» (1Ts 1,5). 


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