XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

Letture: Ez 33,1.7-9/ Sal 94 / Rm 13,8-10 / Mt 18,15-20


GUADAGNARE IL FRATELLO



Nelle ultime domeniche la Parola di Dio ci ha guidato con forza nel nostro cammino di conversione. Meditando il segno dei pani moltiplicati dal Signore Gesù, ci siamo accorti di avere ancora poca fede in lui, come il discepolo Pietro che non riesce a camminare sulle acque. Siamo sprovvisti di quella fede semplice e schietta manifestata invece dalla donna Cananea, che strappò il miracolo al Maestro scodinzolando ai suoi piedi, come un confidente cagnolino. Infine ci siamo anche ricordati che non basta riconoscere in Gesù il Cristo per avere fede ma occorre seguirlo, imparando a rinnegare noi stessi, quando i nostri pensieri non sono secondo la radicalità del suo Vangelo. Oggi vediamo le conseguenze che questo esigente cammino di fede può avere nei rapporti che viviamo tra di noi, come fratelli. La liturgia ci fa affrontare il delicato tema della correzione fraterna.


Unico debito

San Paolo afferma che abbiamo un solo debito. Che notizia liberante! Viviamo appesantiti da tanti debiti: non solo il mutuo, l'affitto, le bollette; anche le relazioni più importanti talvolta diventano dei pesi e dei condizionamenti che segnano pesantemente il nostro cammino. Vorremmo essere liberi, ma purtroppo siamo tutti molto legati, anche senza volerlo. Tanti, troppi sensi di colpa e del dovere condizionano le nostre azioni. San Paolo taglia corto e ci ricorda che, in quanto cristiani, in realtà non abbiamo alcun debito con nessuno, ma solo con quel Dio che ci ha amato – fino a donare per noi la sua – vita e desidera solo che anche noi impariamo ad amare. Perciò l'unico vero debito è quello «dell'amore vicendevole» (Rm 13,8). Questa è l'unica cosa che Dio non può fare al posto nostro. Tutto il resto: i nostri limiti, i nostri vuoti, i nostri peccati, Dio è capace di condurli a «pienezza» (13,10) con il suo amore. La provocazione dell'apostolo si traduce subito in un esame di coscienza: stiamo vivendo questa libertà dell'unico debito, quello dell'amore? Oppure stiamo scivolando ancora una volta in un cristianesimo che si preoccupa e si affanna nell'evitare il male: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai» (13,9)? Stiamo cercando di amare il prossimo come amiamo noi stessi? Gli vogliamo così bene da avere il coraggio e la libertà di ammonirlo quando sbaglia? Il profeta Ezechiele e il Maestro Gesù ci ricordano che l'ammonizione fraterna è un atto necessario alla verità dei rapporti che viviamo.


Per noi

Anzitutto rispetto a noi. Se non richiamiamo il fratello che sta agendo da «malvagio» (Ez 33,8), allora rischiamo seriamente noi di non essere salvi. Infatti se dopo il nostro richiamo il malvagio non desiste «dalla sua condotta, egli morirà per la sua iniquità», noi però avremo fatto la nostra parte: «Tu ti sarai salvato» (33,9), dice il profeta. Ma se noi non parliamo, allora siamo nei guai perché la nostra omertà denuncia un pericoloso legame con il male che il nostro fratello ha commesso. Ezechiele ci invita ad essere sentinelle, che dalla torre di guardia si devono preoccupare di tenere gli occhi bene aperti. Una sentinella non deve giudicare, ma riferire ciò che vede. Il suo è indubbiamente un lavoro rischioso, che espone a gravissimi pericoli. Dobbiamo imparare ad essere sentinelle per il fratello che vive accanto a noi. Non per salvarlo – questo è il mestiere di Dio – ma per aiutarlo ad aprire gli occhi su eventuali cammini oscuri che dovesse percorrere. Certo ci vuole apertura, sia per fare la correzione, sia per riceverla. Qualsiasi rimprovero è possibile solo quando non ci si sente giudicati, ma accolti. Altrimenti non siamo disposti ad accettare eventuali osservazioni, senza avvertirle come giudizio e aggressione. Inoltre per diventare sentinelle lucide e impavide ci vuole fede. Ci possiamo correggerci solo nella misura in cui la fede e la preghiera ci ricordano che la nostra vita (e quella del fratello) appartengono anzitutto a Dio. La fede in Dio si traduce nel coraggio di annunciare al fratello una parola di correzione, senza paura di rendersi antipatico agli occhi dell'altro, senza timore perdere l'amico, il figlio, la persona amata. Mossi dal desiderio di poter strappare l'altro da un male e restituirlo al bene.


Con amore

Il Vangelo ci dice il modo con cui compiere questo dovere fraterno. Una lettura dell'insegnamento di Gesù circa la correzione fraterna – a prima vista molto scontata – sembra autorizzare la comunità cristiana ad attivare un graduale allontanamento della mela marcia. Primo cartellino giallo, secondo cartellino giallo, infine cartellino rosso: espulsione! Come se la chiesa avesse ricevuto dal suo Signore una sorta di mandato tribunalizio per allontanare le persone negativa dal suo interno, con più o meno espliciti atti di scomunica. Non è senz'altro questo il senso profondo del brano. Questo Vangelo traccia il cammino con cui la comunità deve impegnarsi a cercare di recuperare il fratello che sbaglia con una crescente disponibilità di amore e di attenzione. Questo insegnamento ci aiuta a comprendere che la correzione fraterna è la più grande manifestazione di carità, perché dice quanto l'altro ci sta a cuore e quanto siamo disposti a fare per la sua salvezza. Gesù dice: se «il tuo fratello commetterà una colpa va' e ammoniscilo fra te e lui solo» (Mt 18,15). Cioè: prova con la forza del tuo amore a reintegrare il fratello che si è allontanato. Se funzionerà «avrai guadagnato il tuo fratello» (18,15). Infatti, quando un fratello è nel peccato dovremmo sentirlo come qualcuno che 'ci manca', che manca alla comunione fraterna desiderata da Dio Padre. Se il nostro amore non dovesse essere sufficiente «prendi con te una o due persone» (18,16). La «parola di due o tre» può essere più forte e incisiva di quella del singolo. Ma se il peccatore non dovesse ascoltare nemmeno questa testimonianza, dice il Maestro, «dillo alla comunità» (16,17). L'amore e la preghiera della comunità sono l'ultima forza disponibile per recuperare il fratello:   forse colui che ha mancato l'obiettivo, sarà talmente sollecitato dall'amore da sciogliersi dal peccato e legarsi alla comunità. Ma, se ciò non fosse ancora sufficiente, «sia per te come il pagano e il pubblicano» (16,17). Cioè, guardalo come una pecorella smarrita di cui si prenderà cura quel Dio, che è capace di guardare con infinita misericordia i pubblicani e i peccatori, fino a donare loro il perdono e la pace. (Chi scrive questa pagine di Vangelo è Matteo, il pubblicano diventato discepolo, che parla a partire dalla sua personale esperienza).


Allora il significato dell'affermazione finale del Vangelo non va cercato nel senso della donazione di un potere dato alla chiesa: «Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (18,18). Lo scioglimento dalle colpe è anzitutto un problema di responsabilità per la chiesa. Alla comunità cristiana non è stato affidato l'esercizio di un giudizio, ma l'amministrazione – saggia e prudente – di una parola di misericordia. Dio è assolutamente convinto che siamo capaci di diventare fratelli, di allargare il cerchio della comunione nel suo nome. Molte volte le nostre comunità, le nostre famiglie mancano di questa comunione e di questa tensione d'amore verso chi sbaglia! Tendiamo facilmente a circondare di pettegolezzi e di indifferenza il peccatore. Alla comunità cristiana è data la responsabilità di inventare tutte le strade possibili per reintegrare il fratello. E quando tutte le strade si sono rivelate inefficaci, non dobbiamo perdere la speranza, ma affidarci al Padre il quale desidera che il peccatore si converta e viva. La correzione quando è mossa dall'amore «non fa alcun male» (Rm 13,10). Salva noi stessi dalla complicità e dalla connivenza con il male. Inoltre può essere l'occasione perché il nostro fratello si ravveda e torni a vivere. È una grande responsabilità, che il Signore ci chiede di vivere senza paura.



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