Lunedì - XI settimana del Tempo Ordinario

Letture: 1Re 21,1-16 / Sal 5 / Mt 5,38-42


EREDITÀ




Nell'accostamento di letture sacre che la liturgia quotidianamente propone, solitamente è la pagina del Nuovo Testamento (NT) ad illuminare quella dell'Antico o Primo Testamento (AT o PT), rivelandone significati spirituali latenti. Questo è peraltro un principio ermeneutico che la Chiesa ha sempre ritenuto imprescindibile per una lettura cristiana delle Scritture ebraiche: solo alla luce del mistero di Cristo possiamo comprendere il significato profondo di quanto è scritto «nella della Legge di Mosè, nei Profeti e nei Salmi», secondo l'insegnamento del Risorto (cf Lc 24,44).


Nella liturgia di oggi questo rapporto si inverte: è la drammatica pagina del primo libro dei Re ad offrirci un aiuto per accogliere la verità delle impossibili richieste che il Maestro Gesù propone a chi si desidera seguirlo: «Se uno ti percuote la guancia destra, tu porgigli anche l'altra» (Mt 5,39). Di fronte a simili parole infatti possiamo reagire con un'entusiastica ma immobile ammirazione, oppure con una sincera quanto inattuabile adesione letterale. Vale la pena di ricordare che nel Vangelo troviamo già un'attualizzazione di questo esigente comando nella vita stessa del Signore Gesù. Nella sua passione, quando una guardia lo schiaffeggia per il suo parlare schietto davanti al sommo sacerdote, il Maestro non reagisce con una completa e inerte passività, ma ribatte: «Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23).


Porgere l'altra guancia non significa esattamente e necessariamente concretizzare alla lettera la parola della misericordia: «Da' a chi ti domanda» (Mt 5,42), ma offrire all'altro la qualità di una relazione che non accetta mai il compromesso con la violenza e, al contempo, non baratta mai la verità per il quieto vivere. Per questo l'esempio di Nabot può essere illuminante, anche se in prima battuta non risulta essere in stretta relazione con l'insegnamento di Gesù. Quando il re Acab cerca di acquistare la sua vigna, Nabot oppone un secco rifiuto: «Mi guardi il Signore dal cederti l'eredità dei miei padri» (1Re 21,3). Il re, «amareggiato e sdegnato» (21,4) non capisce il senso delle parole di Nabot, che si stampano nel suo cuore ferito come una cattiva registrazione: «Non cederò la mia vigna» (21,6). Ma Nabot aveva parlato dell'eredità dei suoi padri, non della sua vigna! Questo fraintendimento linguistico rivela in realtà una duplice modalità di possedere le cose. Per Nabot la vigna è un'eredità ricevuta, quindi un dono. Per Acab invece la vigna è un capriccio, quindi qualcosa da possedere a qualsiasi prezzo. E sappiamo che il prezzo sarà alto, perché la perfida moglie Gezabele, mediante un losco complotto, riuscirà a far uccidere il povero Nabot per lapidazione. 


Nabot nuore così, per il capriccio di un re che si illude di poter possedere la vita e i suoi frutti e di una donna senza scrupoli, accecata dall'inganno del potere e della ricchezza: «Te la darò io la vigna di Nabot di Izreel» (21,7). Il Maestro ci invita invece a credere che la vita è e rimane sempre un dono da ricevere, per questo ci chiede di essere radicalmente e rocciosamente estranei a qualsiasi forma di violenza e di sopraffazione. Porgere l'altra guancia, dare a chi ci chiede, accettare che la vita e l'altro ci tolgano qualcosa di cui disponiamo, non volgere mai le spalle a nessuno sono gli atteggiamenti quotidiani con cui possiamo esercitare l'arte delle beatitudini, facendo della mitezza l'unica – proprio l'unica – ostinazione del cuore. 



Commenti

Unknown ha detto…
Il problema della risposta alla violenza mi mette in grandissima difficoltà.
L’ insegnamento del Maestro è chiarissimo in proposito, tuttavia in me sono presenti fortissime resistenze ad accogliere questa parola. Trovo addirittura un sostegno a questi miei dubbi nel Catechismo della Chiesa Cattolica al punto 2264, che riporto qui di seguito:

"L'amore verso se stessi resta un principio fondamentale della moralità. E' quindi legittimo far rispettare il proprio diritto alla vita. Chi difende la propria vita non si rende colpevole di omicidio anche se è costretto a infliggere al suo aggressore un colpo mortale:
Se uno nel difendere la propria vita usa maggior violenza del necessario, il suo atto è illecito. Se invece reagisce con moderazione, allora la difesa è lecita . . . E non è necessario per la salvezza dell'anima che uno rinunzi alla legittima difesa per evitare l'uccisione di altri: poiché un uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui [San Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, II-II, 64, 7]."

Non sono ancora in grado di trovare una sintesi fra quanto affermato nella Summa theologiae e quanto affermato nel Vangelo. E’ ovvio che vale di più la Parola, non penso tuttavia che S. Tommaso abbia voluto contraddire quella.

Roberto, ho bisogno del tuo aiuto.
Con affetto,

Michele