V Domenica - Tempo di Quaresima – Anno A

Letture: Ez 37,12-14 / Sal 129 / Rm 8,8-11 / Gv 11,1-45


QUESTIONE DI VITA

(e di morte)




LA VITA SEMBRA FINIRE

Dopo averci fatto meditare alcuni aspetti problematici della nostra vita (il cuore che ha sete, gli occhi che non vedono), in questa domenica la liturgia indirizza il nostro sguardo sul grande problema della vita: la morte. È indispensabile scrutare questo lato oscuro dell'esistenza umana, per non correre il rischio che i nostri giorni restino una fuga, coatta e inutile, da ciò che sappiamo essere il sicuro punto d'arrivo dei nostri passi. Che grande regalo la vita; peccato che un giorno finisce! Nessuno sa come e quando, ma a tutti questo dono viene revocato. Anche per Gesù è stato così. Anche per il suo amico Lazzaro. Anche per noi, per i nostri amici, i nostri parenti. La vita sembra finire...


E DIO NON FA NIENTE

Per di più, Dio sembra non agire di fronte a questa emorragia di gioia che segna il destino del mondo. Quando Gesù viene a sapere che il suo amico Lazzaro «è malato» (Gv 11,3) non fa nulla, anzi rimane «per due giorni nel luogo dove si trovava» (11,6). Perché il Signore si comporta così? Non gli interessa che moriamo? Eppure, scrive Giovanni, «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (11,5)! Perché allora si limita a dire che «questa malattia non porterà alla morte, ma è per la gloria di Dio» (11,4)? Di fronte al dramma della sofferenza e della morte, il Signore sembra avere uno sguardo meno allarmato del nostro. Abbiamo come l'impressione che per lui il punto fondamentale sia un altro. 


Poi però il Maestro si incammina verso l'amico Lazzaro quando è ormai «morto» (11,14) ed è  «già da quattro giorni nel sepolcro» (11,17). Appena la sorella Marta viene a sapere che «veniva Gesù» gli va incontro e gli dice: «Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto!» (11,21). Ecco la nostra fede! Anche noi crediamo che se Dio ci fosse, alcune cose non succederebbero e non dovrebbero succedere. Noi vogliamo un Dio amico e portafortuna, che evita a noi e ai nostri cari il dolore e la sofferenza. E infatti la nostra fede spesso si limita a non fare il male, si accontenta di contenere i danni. Invece Dio non si ferma a questo legittima ma parziale aspettativa di vita, perché vuole introdurci in una vita migliore, che non teme di giocarsi fino in fondo. Anche noi, come Marta, sappiamo che ogni uomo «risorgerà nell'ultimo giorno» (11,24), ma non abbiamo ancora compreso fino in fondo che in realtà l'ultimo giorno è adesso, perché Gesù è la Risurrezione, perciò chi «vive» e «crede» in lui, «anche se muore, vivrà» (11,25). «Credi tu questo?» (11,26) chiede Gesù a Marta e a ciascuno di noi. Marta esclama: «Sì» e poi corre a chiamare sua sorella, forse risollevata interiormente dal presagio che in Gesù c'è una potenza di vita e di salvezza che va oltre la morte.


LA VERA MORTE

Forse qualcosa è già successo nel cuore di Maria dopo queste parole di Gesù: si è accesa una speranza, la paura non è più così forte. Perché c'è un problema più grande del morire, che è il non credere e non vivere a causa della paura che abita nel nostro cuore. Questo è il male più terribile presente nella storia; la Bibbia lo chiama peccato. La morte non l'ha inventata Dio, ma è entrata nella creazione a causa del peccato che l'uomo ha compiuto. Il problema del mondo non è che si muore (tra l'altro non ci staremmo tutti nel pianeta se fossimo eterni e fecondi!); il problema è che questo nostro mondo è ancora pieno di peccato e molto del peccato presente nel mondo nasce dalla paura di morire e dalla tenebra dell'egoismo che è dentro di noi. 


Perché ci sono tutte le cose cattive che diventano terribili fatti di cronaca ogni giorno? Perché la nostra società puzza come Lazzaro nel sepolcro, se non peggio? Perché i bambini muoiono giocando a rincorrersi sopra campi disseminati di mine? Perché la vita innocente è violata e venduta? Perché esiste ancora la schiavitù? Perché tante famiglie sono spezzate dalla guerra e dalla violenza? Perché milioni di bambini non vengono alla luce dopo essere stati concepiti? Perché la droga, perché la prostituzione, perché la povertà e la fame? Perché nella nostra società occidentale opulenta e triste, anche se abbiamo tutto, non siamo mai felici?


Forse dovremmo riconsiderare un po' più seriamente il mistero della morte e del peccato. A volte viviamo come se la morte non ci toccasse o non ci avesse mai toccato. Non ci accorgiamo di quanto sapore di morte abbiano molte scelte della nostra vita: i nostri egoismi, il nostro modo possessivo di vivere i rapporti con le cose e con le persone. Ci dimentichiamo di quanta vanità ed esteriorità sia presente nel nostro modo di vivere, non ci preoccupiamo più del nostro cuore che a volte si indurisce e diventa come una pietra. Forse non ci accorgiamo che il nostro «corpo è morto per il peccato» (Rm 8,10) perché non vediamo le conseguenze del male che facciamo. Niente ci appare più grave: le piccole indifferenze, le piccole omertà (nei luoghi di lavoro, in politica, in famiglia, tra amici), i piccoli imbrogli, le quotidiane menzogne. Ci giustifichiamo dicendo: 'fan tutti così', oppure: 'non si può fare altrimenti' o ancora: 'mica lo cambio io il mondo'! E così lentamente muore la nostra anima, e ci dimentichiamo che 'essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare' (p. Neruda).


IL DIO DISCEPOLO

Nel frattempo Dio fa qualcosa: lascia che le nostre scelte sbagliate giungano all'inesorabile capolinea della morte e, come Lazzaro, mandino «cattivo odore» (11,39). Allora – solo allora – si avvicina al nostro dolore e alla nostra morte. Non come un Signore asettico e senza pietà, ma come un discepolo misericordioso e compassionevole dei nostri sentieri interrotti. Dicono i Giudei a Gesù: «Vieni a vedere» (11,34). Allora Gesù scoppia «in pianto» (11,35), perché «amava» (11,36) l'amico Lazzaro. Dio piange davanti al nostro male, si turba, si commuove. Non è indifferente, non è lontano! Dio versa quelle lacrime che forse noi non riusciamo più nemmeno a versare per i nostri peccati. Dio ama la nostra vita più di quanto noi la amiamo e, se lascia che la morte avvenga, lo fa soltanto perché impariamo a riconoscere la sua presenza d'amore dentro la nostra tenebra. 


LA VERA VITA

Dice Gesù a Lazzaro: «Vieni fuori!» (11,43). E il morto esce, torna alla vita. Alla vista di questo prodigio molti «credettero in lui» (11,45). L'ultimo segno che Gesù compie fa risorgere soprattutto il cuore di tutti i presenti, mentre il povero Lazzaro dovrà riaffrontare ancora una volta l'esperienza della morte fisica. 


Dio non ci salva dalla morte, ma nella morte. Non ci toglie quel limite che ci è necessario per esistere, né la dignità di esserne coscienti; ci offre la grazia di comprenderlo e di viverlo in modo nuovo. La Pasqua ormai imminente è anticipata dall'episodio di Lazzaro, l'amico del Maestro Gesù, che viene strappato dal disfacimento della morte. Come la voce del Signore, piena di amore e di affetto, ha potuto strappare l'amico dalla momentanea presa della morte, così noi possiamo essere strappati da tutti i legami di morte che ancora ci impediscono di camminare liberi verso la vita eterna.


Cristo non è rimasto prigioniero del sepolcro perché ha offerto la vita, nessuno gliel'ha strappata. Certo, chi dona vita riceve morte: è il paradosso della croce che si compie anche nella nostra  piccola e povera vita, nella misura in cui scegliamo di offrire la vita nell'amore e nella giustizia, anziché restare chiusi nel sepolcro delle nostre paure.


Essere cristiani non è credere che ci andrà bene, forse, un giorno, se e quando Dio si ricorderà di noi. Ma è credere che la vita eterna è qui ora, ed è la vita che sceglie sempre di amare e di praticare la giustizia. Questa vita noi la possiamo vivere! Un grido ci invita a farlo: il grido del Signore risorto, il Dio vivente che dice alla nostra vita: Vieni fuori!


Commenti

Anonimo ha detto…
Dopo la risurrezione di Lazzaro "..molti dei giudei che avevano visto ciò che Egli aveva fatto, credettero in Lui". Non tutti, molti. Un altro Lazzaro come ci racconta Luca, farà dire ad Abramo "..se non ascoltano Mosè e i Profeti non daranno retta neppure ad uno che sia risorto dai morti". I due episodi si saldano idealmente e ci dicono quello che, se guardiamo dentro di noi, scopriamo con facilità: non i segni esterni, ma la grazia di Dio ci toglie dalla cecità. Domenica ho visto due persone, che conosco da quarant'anni e che vivevano e professavano aperto disprezzo per il sacro, accostarsi con semplicità alla comunione. Mi è venuto spontaneo, forse per la prima volta in vita mia, "congratularmi" e rallegrarmi con Il Signore per la Sua grandezza.