Martedì della II settimana - Tempo di Quaresima

Letture: Is 1,10.16-20 / Sal 49 / Mt 23,1-12


SENZA OSTINAZIONE



Ad un popolo che vive un ritualismo esteriore, al quale non corrisponde un sentimento autentico di filiale timore nei confronti di Dio, il profeta Isaia dice: «Lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni... Se sarete docili e ascolterete, mangerete i frutti della terra. Ma se vi ostinate e vi ribellate, sarete divorati dalla spada» (Is 1,16.19-20)


Povero Dio! Quanta fatica da sempre compie per cercare di distoglierci dalla via del male, per porre fine alle sceneggiate patetiche e ambigue con cui costruiamo la nostra vita. Ma per noi è difficile ascoltare questa voce buona che ci supplica di non ostinarci nel «fare il male» (1,16) e nel coltivare la logica dell'apparire «per essere ammirati dagli uomini» (Mt 23,5). Preferiamo reagire in altro modo: o moltiplicando i sacrifici e le preghiere – come ci ricorda il salmista – oppure diventando ipocriti, come già prima di noi capitava agli «scribi e ai farisei» (23,2), i quali «dicono e non fanno» (Mt 23,3). Sono due atteggiamenti dannosi e inutili, che nascono dalla paura e dalla superficialità con cui viviamo il nostro rapporto con Dio. 


La paura è ciò che ci spinge ad offrire a Dio molte cose: situazioni, cose, rinunce e preghiere. Ma spesso questa intensa e diffusa attività religiosa è solo un modo per tenere buono il Signore e non occuparci invece di rimuovere il male che è presente nella nostra vita. Il Signore non accetta questo atteggiamento; dice attraverso il salmista: «Non ti rimprovero per i tuoi sacrifici, i tuoi olocausti mi stanno sempre dinanzi» (salmo responsoriale). Ma, aggiunge: «Non prenderò giovenchi dalla tua casa, né capri dal tuo recinto»  Dio non ha bisogno che gli facciamo regali –  mestiere che invece lui sa fare benissimo – ma soltanto che riconosciamo davanti a lui i nostri «peccati» (Is 1,18), affinché egli possa perdonarli e noi possiamo imparare «a fare il bene» e a ricercare «la giustizia» (1,17).


Il problema della superficialità invece è ciò che ci spinge a ritenere che il peccato sia una realtà così innocua da poter essere nascosta o camuffata. Si tratta di un ragionamento ingenuo che diventa la base di una vita in cui le parole che pronunciamo e i gesti che facciamo si permettono di andare in direzioni diverse. Il meccanismo psicologico e spirituale che presiede a questo gioco è comprensibile. Quando pecchiamo la nostra autostima precipita, ci sentiamo inferiori a tutto e a tutti. La reazione immediata di fronte a questo improvviso scompenso è il tentativo di innalzarci (cf Mt 23,12), di acquistare un nome importante con cui recuperiamo subito presso gli altri quella stima che abbiamo perduto. E così cominciamo a vivere per sentirci «chiamare» (23,7), per «essere ammirati», (23,5) per sedere nei «posti di onore nei conviti, i primi seggi» (23,6). In tal modo diventiamo uomini ingiusti che «legano pesanti fardelli e li impongono sulle spalle» (23,4) dei fratelli, anziché accettare di portare «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2). 


La realtà è molto diversa: siamo «tutti fratelli» (23,8), solidali nel peccato e nel perdono. E siamo fratelli in quanto figli amati e chiamati all'eredità della vita senza fine. Non orfani, abbandonati e soli, a cui Dio chiede assurdi e inutili sacrifici. Perché ci ostiniamo a diventare altro da ciò che siamo? Perché non proviamo ad arrenderci alla forza e alla libertà dell'Amore che ci vuole fratelli? Docilmente. Senza ostinazione.


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