XXXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Letture: Sap 11,22-12,2 / Sal 144 / 2Ts 1,11-2,2 / Lc 19,1-10


GIÙ DAL PERO



L’esempio del pubblicano di settimana scorsa, che si riconosce peccatore e torna a casa sollevato, era piuttosto consolante. Bello: con Dio non dobbiamo fingere, ma essere umili, veri! Non è però facile riconoscersi con autenticità, né davanti a se stessi, tanto meno davanti ad un altro. Un’insopprimibile tendenza a mostrare il meglio residuo di quello che siamo domina i nostri modi di fare e vincola le nostre parole.


Immaginiamo, speriamo, sappiamo che Dio «ha compassione di tutti» e non guarda «ai peccati degli uomini» (Sap 11,23). Tuttavia non ce la facciamo ad essere trasparenti di fronte a lui. Forse anche perché crediamo che questa sua bontà, in fondo in fondo, abbia un limite e non vorremmo sperimentarlo sulla nostra pelle.


Deve allora accadere qualcosa, che sta al di là dei ragionamenti e delle programmazioni. Un incontro, dall’apparenza occasionale e improvviso come quello che il Vangelo di questa domenica racconta, in realtà preparato e cercato da Dio stesso, come scopriamo dalle parole conclusive del Maestro Gesù: «Il Figlio dell’uomo è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,10).


Per fortuna Luca ha scelto di raccontare questo episodio dopo la parabola del fariseo e del pubblicano. Avremmo infatti potuto trarre l’ingenua conclusione che per migliorare la nostra preghiera era sufficiente imparare ad abbassare un po’ il capo, mostrandosi un po’ meno tronfi e presuntuosi di fronte a Colui che ci conosce «fino in fondo» (Sal 138,14). L’esperienza di Zaccheo, «capo dei pubblicani e ricco» (Lc 19,2) ci dice che per incontrare il «Signore, amante della vita» (Sap 11,26) la sua «salvezza» (Lc 19,9) dobbiamo avere il coraggio di salire in alto, per poi – finalmente – cadere a terra.


Zaccheo era ricco e potente. Per tutta la vita aveva fatto e disfatto, brigato e sbrigato, diventando ricco a spese dei suoi connazionali, ai quali spillava più denaro di quanto il governo romano richiedeva come tasse. Questo era il vizio diffuso di tutti i pubblicani al suo tempo. Tempi antichi, nei quali si abusava di una carica pubblica per riempire il proprio portafoglio! Probabilmente Zaccheo non era molto contento della sua vita; Luca scrive che, mentre Gesù attraversava la città di Gerico, «cercava di vedere quale fosse Gesù» (Lc 19,3).


Viene descritto anche un un dettaglio forse non solo anatomico: «era piccolo di statura» (Lc 19,3). La figura di Zaccheo rappresenta bene una condizione, che tutti in qualche modo conosciamo. La sua piccolezza è simbolo di quella posizione di inferiorità che sopporta segretamente e dolorosamente di dover guardare gli altri e il mondo sempre dal basso in alto. Per sfuggire a questa continua umiliazione nella vita impariamo ad arrampicarci, con sforzi e progetti, per guadagnare una posizione da cui guardare la vita e gli altri dall’alto in basso.


Questa faticosa e discutibile arrampicata, che tutti in qualche modo proviamo a fare, Zaccheo la compie anche quel giorno: «salì su un sicomoro, poiché (Gesù) doveva passare di là» (19,4). Ancora una volta Zaccheo tenta il gesto estremo, cerca di innalzarsi al di sopra della sua statura... Lo ha fatto così tante volte! Questa volta però c’è una speranza in più: sta passando il Nazareno, il Salvatore.


Quello che a questo punto accade, Zaccheo davvero non poteva immaginarlo: «Quando giunse sul luogo, Gesù alzò lo sguardo e gli disse: ‘Zaccheo, scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua’» (19,5). Il Signore è stato al gioco: senza imbarazzare il piccolo scalatore lo incontra dal basso verso l’alto. E non gli rimprovera la sua condotta immorale, ma gli comunica il suo bisogno di essere accolto nella sua casa.


Se Gesù gli avesse detto: Caro Zaccheo, so che sei un ladro, restituisci il denaro sottratto ingiustamente e poi mangiamo una pizza insieme, scommettiamo che Zaccheo sarebbe ancora incollato al sicomoro?


La parola di amore pronunciata dal basso ha la potenza di un terremoto! Zacche cade dall’albero come un frutto maturo: è una creatura nuova: «Ecco, Signore io do la metà dei miei beni ai poveri; e se ho frodato qualcuno, restituisco quattro volte tanto» (19,8).


È l’amore che ci converte! Dio ha bisogno di convincerci che non conosce confini la sua fiducia in noi, perché sa bene che solo davanti a questa offerta incondizionata cadono i muri della nostra diffidenza e rinasce la nostra intorpidita libertà. Solo davanti al perdono nasce dentro di noi il desiderio di conversione, di cominciare a praticare quella legge che abbiamo provato inutilmente a trasgredire.


Questo amore infinito non corrisponde a quel buonismo rassegnato e passivo che spesso mettiamo nei nostri rapporti e nelle nostre liturgie. È invece una passione intelligente e concreta, che dovrebbe profumare parole, gesti e scelte del nostro tessuto quotidiano.


Per far entrare questo amore nella nostra casa, dobbiamo continuare ad ascoltare la voce del Signore mentre ci nascondiamo nel nostro nido sull’albero. Quella voce ci annuncia che non abbiamo più bisogno di innalzarci sulle punte dei piedi, ma possiamo finalmente essere noi stessi.


Cadremo finalmente giù dal pero?


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