Letture: Dn 6,12-28 / Dn 3 / Lc 21,20-28
ILLESI
Lascia piuttosto sgomenti e perplessi l'annuncio di speranza che il Signore Gesù ci offre oggi nel Vangelo. Infatti dopo un elenco preoccupante delle peggiori «calamità» (Lc 21,23) che possano accadere alla terra e agli uomini, la conclusione sembra priva di ogni logica: «Quando cominceranno ad accadere queste cose, alzatevi e levate il capo, perché la vostra liberazione è vicina» (21,28). Il Maestro non vive di illusioni e non esita a riconoscere i segni di morte e di violenza presenti nella realtà: «Quando vedrete Gerusalemme circondata da eserciti, sappiate allora che la sua devastazione è vicina» (21,20). Ci suggerisce un medesimo sguardo, lucido e preparato ad affrontare «i giorni di vendetta» (21,22) che devono accadere: «Allora coloro che si trovano nella Giudea fuggano ai monti, coloro che sono dentro la città se ne allontanino, e quelli in campagna non tornino in città» (21,21).
Facciamo fatica a tenere nel cuore simili parole; siamo abituati a spendere molte energie e risorse per evitare l'incontro con il male e la sofferenza. Non possiamo biasimarci per questo, però dobbiamo essere altrettanto onesti nel riconoscere che dietro a questa tendenza a salvarci la pelle c'è in realtà una paura dei rischi che la vita porta con sé. Ne sono conferma spietata quei momenti nei quali ci immunizziamo dai pericoli e dalle sventure e ci accorgiamo che il nostro cuore è «in ansia per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere» (21,25-26).
Ma il principio della nostra salvezza non è l'elusione della «devastazione» (21,20) e di ogni «grande calamità» (21,23), quanto la capacità di rimanere fedeli a noi stessi, di vivere fino in fondo ciò che siamo come dono.
Ne è splendido esempio Daniele, uomo autentico, abituato a pregare «tre volte al giorno» (Dn 6,14) e a servire Dio «con perseveranza» (6,17). Sebbene il suo corpo venga sigillato nella «fossa dei leoni» (6,17), le fauci della morte non riescono a fargli «alcun male», perché il suo cuore rimane «innocente» (6,23). In lui non si riscontra «lesione alcuna» perché ha «confidato nel suo Dio» (6,24), e così ha potuto eludere non la sofferenza ma la paura di morire, segno di una paura ben più grande che sempre ci domina: la paura di vivere e di donare.
A forza di schivare il male e le prove della vita rischiamo di diventare schiavi della paura di morire. Eludendo la prova manchiamo il bersaglio dell'amore, che è il fine di tutta la nostra vita. Nella misura in cui accettiamo di cadere nella fossa della prova, scopriamo che i temibili leoni delle nostre paure non possono farci alcun male, se custodiamo lo sguardo sul volto sereno e risorto del Signore Gesù.
Così, illesi dalla paura di vivere e di morire, possiamo diventare testimoni del vero Dio, «il Dio vivente, che dura in eterno; il suo regno è tale che non sarà mai distrutto e il suo dominio non conosce fine. Egli salva e libera, fa prodigi e miracoli in cielo e in terra: egli ha liberato Daniele dalle fauci dei leoni» (Dn 6,27-28).
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Jessica