XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Letture: Sir 35,12-14.16-18 / Sal 33 / 2Tm 4,6-8.16-18 / Lc 18,9-14

PREGHIERA UMILE


‘Oh, meno male che non siamo come questo spocchioso fariseo!’. Se esclamassimo, anche solo interiormente, queste parole davanti alla parabola del fariseo e del pubblicano al tempio, cadremmo nell’errore da cui il Signore vuole salvarci con questo Vangelo. Entreremmo subito a far parte di quelle persone che, già al tempo di Gesù, «presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri» (Lc 18,9).


Ma forse è un po’ inevitabile che la prima identificazione sia tra noi e il fariseo perché, anche dopo duemila anni, l’umanità sembra manifestare la stessa debolezza: la tendenza a giustificarsi, sbandierando un’immagine di sé più ideale che reale. Il contesto della nostra contemporaneità è profondamente cambiato rispetto ai tempi di Gesù. Oggi nessuno va particolarmente fiero delle sue prestazioni ‘religiose’; viviamo infatti un mondo secolarizzato e in una cultura laica. Non è venuta meno però l’abitudine di mettere il proprio ego al centro di ogni dire e di ogni agire. Questo – solo questo – è ciò che guasta la preghiera del fariseo, capace di osservare e di ringraziare, ma in fondo preoccupato soltanto di celebrare quello che egli riesce a fare per Dio: «O Dio, ti ringrazio che (io!) non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. (Io) Digiuno due volte la settimana e (io) pago le decime di quanto (io) possiedo» (18,11-12). Uno splendido monologo, che non «penetra le nubi» (Sir 35,17) ma, come una debole freccia, ricade inutilmente a terra.


Tutt’altra traiettoria assume l’orazione del pubblicano, il quale essendo peccatore pubblico non ha nascondigli, ma è più libero di raccontare a Dio quel fallimento che si sente dipinto sul volto, a causa della sua vita e delle sue scelte: «O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13), cioè: ‘Signore, aiutami perché sono una frana!’. Il pubblicano mette al centro Dio e quello che Dio può fare per lui. Non ha maschere, non tenta di salvarsi la faccia. «Si umilia» (Lc 18,14) senza opporre resistenza davanti a colui che può salvare ancora il suo volto. Ebbene, dice il Signore, quest’ultimo «tornò a casa sua giustificato, a differenza dell’altro, perché chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14).


Sciocchi e tarocchi

Esiste un’innata e insopprimibile tendenza a giocare ai farisei, anche se siamo cristiani maturi e datati. Per quanto il Maestro ci abbia svelato il sorriso del Padre, continuiamo ad avere un’immensa paura che dietro le «nubi» (Sir 35,16) ci sia un Dio terribile, pronto a condannarci per la nostra vita non buona e non bella.


Ai nostri giorni è un po’ scomparso il senso del peccato. Circola molto senso di colpa, ma è un’altra cosa: è la nostra delusione per non essere quello che (noi) vorremmo. Non riusciamo più a dirci peccatori, non tanto perché questa parola sia desueta, ma – credo più onestamente – perché abbiamo oscurato il volto tenero di Dio Padre e quindi la vita è diventata una frenetica e caotica corsa a conquistarci un’identità, a mendicare un affetto, a trovare un posto nel mondo che possa farci sentire vivi e importanti.


La vita è un’avventura piena di sfide, difficili e belle. Tutti i giorni sbagliamo clamorosamente in qualcosa: nel campo del lavoro, nell’uso dei beni, nel guadagno o nella spesa dei soldi, negli affetti, nell’utilizzo del corpo, ecc. Eppure quando ci mettiamo davanti a Dio o dentro un confessionale, non riusciamo a dirci peccatori. Lo facciamo con estrema fatica, con paralizzante paura. In fondo a questa incapacità c’è soprattutto il nostro stare poco davanti al volto del Padre e quindi il nostro sentirci poco figli.


Il Signore ci chiede di non essere discepoli tarocchi, ma persone vere, come il pubblicano che prega senza maschere. Siamo chiamati a diventare farisei che si riconoscono pubblicani, per vivere l’esperienza dell’amore che salva e trasforma la storia.


Paolo più di ogni altro ha vissuto questa esperienza che traspare dai suoi scritti. Dopo aver provato ad essere un giusto e un osservante ha scoperto nel Vangelo una Legge più grande e vera: la legge della carità. Questa scoperta lo ha fatto diventare una «creatura nuova» (Gal 6,15), non più concentrata su di sé, ma anche su «tutti coloro che attendono con amore» (2Tm 4,8) la manifestazione del Signore. Da zelante nell’osservanza è divenuto zelante nell’amore e nel perdono: «Tutti mi hanno abbandonato. Non se ne tenga conto contro di loro» (2Tm 4,16).


Come la terra

Così ci vuole Dio: umili, veri. La preghiera è un cammino di autenticità, che ci porta pian piano a diventare noi stessi, a riconoscere la nostra verità davanti a quella di Dio. Essere umili non significa pregare e vivere con il capo chino in segno di sottomissione, ma riconoscere i nostri doni e i nostri limiti, senza paura, senza falso pudore.


Di simili persone il mondo, ieri e oggi ha bisogno, per un domani pieno di speranza. Persone vere come la terra, che sembra nulla, ma tutto accoglie e fa germogliare.


Commenti

Anonimo ha detto…
Non sono molte le occasioni in cui riconosco i miei limiti ed i miei errori ma, grazie al continuo confronto con il Vangelo e con chi cerca di aderire al suo insegnamento sto lentamente imparando a non vivere più il riconoscimento dei miei errori come un mero fallimento ma, come un'esperienza che mi spinga a migliorarmi e sto anche imparando ad allargare ciò che gli psicologi chiamano il "sentimento di responsabilità" ossia il saper discernere correttamente quale ruolo o responsabilità ha avuto una mia scelta per un certo risultato (specie se negativo) ossia quanto è dipenso da me e quanto dagli altri.

E' molto più facile imputare agli altri i nostri errori anzichè assumerci le nostre responsabilità ma, questo atteggiamento non ci aiuta nè in un cammino di fede nè nella vita di tutti i giorni perchè anche per i furbetti prima o poi arriva il momento "di pagare il conto".

Mimmo