XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Letture: Am 6,1.4-7 / Sal 145 / 1Tm 6,11-16 / Lc 16,19-31

ABISSI DI SOLITUDINE




Attraverso immagini forti e parole di fuoco, le letture di questa domenica concludono e perfezionano le riflessione circa l’uso della ricchezza iniziata domenica scorsa.

Non ci siamo ancora

La prima cosa che viene da dire, ascoltando la voce del profeta Amos e la parabola del Maestro Gesù è che l’umanità ha ancora parecchia strada da fare per risolvere il gravissimo problema dell’ingiustizia sociale. Utilizzando il linguaggio crudo e diretto del profeta Amos, potremmo dire che «l’orgia dei buontemponi» (Am 6,7) e degli «spensierati» (Am 6,1) non è ancora cessata. Il profeta Amos si scaglia contro i ricchi del suo tempo che banchettavano «su letti d’avorio e sdraiati sui loro divani» (Am 6,4), canterellavano «al suono dell’arpa» (Am 6,5) e bevevano «il vino in larghe coppe» (Am 6,6) mentre i poveri morivano nelle strade.

È triste riconoscere che, dopo oltre due millenni di storia, le cose non sono ancora cambiate. La forbice tra ricchi e poveri è sempre aperta, sia all’interno del nostro paese, sia in forma più drammatica a livello mondiale. Sappiamo bene che il cosiddetto terzo mondo in realtà corrisponde ai due terzi del mondo ed è costretto a vivere in situazioni ordinarie di indigenza, fame e malattie mortali.

A questa situazione folle e ingiusta ci siamo forse anche abituati. Al telegiornale vediamo ogni giorno lo spreco di soldi per vestire i corpi magrissimi di giovani ragazze con abiti raffinati e poi mandiamo in onda servizi che mostrano i corpi denutriti e malati dei bambini poveri dell’Africa o dell’America latina.

Le parole dell’apostolo sono già un’ottima esortazione per la nostra coscienza intorpidita: «Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza» (1Tm 6,11). Tuttavia, affinché le nostre riflessioni non diventino discorsi teorici e generici, che ci trovano tutti d’accordo ma che non scalfiscono le pareti gelide del nostro cuore, occorre lasciarci illuminare da tutta la Parola che Dio oggi ci rivolge.

Un bel guaio

La parabola di Gesù è un piccolo capolavoro, intensa ed efficace. Per coglierne il senso è importante però mettere a fuoco due cose. Anzitutto che il personaggio chiave non è Lazzaro, ma il ricco che non ha nome. Proprio in lui siamo chiamati a identificarci. Poi che l’intenzione del racconto non è suscitare nel discepolo che legge il terrore, utilizzando il sicuro avvenimento della morte. La scena post mortem, nella quale si immagina il dialogo tra il ricco ed Abramo è una proiezione in avanti che vuole aiutare a riflettere bene sul presente.

Il ricco epulone non fa del male; fa peggio: non fa nulla! Il suo peccato è una pigra e spensierata indifferenza. A forza di rimpinzarsi di cibo e di vestirsi sontuosamente, egli non vede più il povero che giace alla sua porta. La sua presenza non suscita più scandalo né indignazione. Arriva però la morte, protagonista importante della parabola e allora si rivela una situazione drammatica. Il ricco si accorge di avere davanti a sé un abisso e di essere spaventosamente assetato. A forza di tenere chiusa la porta e di ignorare il suo prossimo, il ricco ha scavato dei veri e propri abissi attorno a sé e dentro di sé. Giorno dopo giorno, vivendo in modo egoista, non si è accorto di rimanere solo e di aver trascurato il bisogno più grande e prezioso: il bisogno dell’altro che vive accanto a noi.

La situazione di questo ricco proiettata nel contesto dell’eternità fa venire i brividi, ma è anche molto illuminante. Ci fa comprendere quanto profonde possano diventare le conseguenze di alcune chiusure che nella vita scegliamo di operare e di mantenere. Ci ricorda che ogni volta che spranghiamo la porta al nostro prossimo, noi cominciamo a costruire abissi di solitudine. Quanti simili abissi ci sono nella nostra società! Si vive separati in casa, in famiglia, in convento, in parrocchia, nei matrimoni, nei luoghi di lavoro.

Questa disumanità diffusa che segna il nostro tempo ci ricorda che i primi poveri a cui convertirci sono le persone con cui viviamo tutti i giorni, alle quali spesso non riusciamo a dare più il nostro cuore e il nostro tempo.

Il Dio nel nostro guaio

Da questi abissi, anzi dentro questi abissi, siamo salvati dal Signore, che si è fatto povero proprio per stare con noi e condividere la nostra solitudine. Questa è una cosa che non diremo e non capiremo mai abbastanza: Dio si è fatto povero, non ci ha fatto l’elemosina. Noi pensiamo che Dio sia venuto per salvare i poveri. Invece è proprio il contrario: Dio si è fatto povero, per salvare i ricchi, gli autosufficienti, coloro che si sono scavati attorno abissi di solitudine. I poveri, il Signore li ha proclamati beati!

La nostra atavica tendenza è sempre quella di rimuovere la povertà, con soldi, strutture, organizzazioni. Naturalmente debellare la fame e la povertà è una cosa giusta. Però dobbiamo ricordarci che se il nostro compito si limitasse a costruire una efficientissima Caritas planetaria, non avremmo ancora raggiunto l’obiettivo per cui siamo stati creati da Dio. Il suo progetto è farci diventare fratelli capaci di amarsi e di avere compassione gli uni verso gli altri.

Perciò il nostro compito è quello di dargli una mano a togliere la ricchezza dal mondo, non la povertà! E la prima ricchezza a cui mettere mano è la nostra: i vestiti superflui, il cibo in eccesso, tutti quei beni della vita che molto spesso ci servono soltanto per sentirci «sicuri» (Am 6,1); ma è un’illusione perché queste cose non ci salvano né ci garantiscono la vita!

Non domani

Gli abissi di solitudine e di ingiustizia possiamo affrontarli ora. Domani è tardi per pensarci. Ciascuno di noi è chiamato a ricolmare quelli che lo riguardano, con gesti semplici, profondi e quotidiani. Un mondo nuovo lo possiamo costruire adesso: sorridendo al povero che incontriamo ogni giorno mentre andiamo al lavoro, togliendo la croce che abbiamo appeso sul collega che ci tormenta, sul coniuge che ci ha tradito, sul figlio che ci ha deluso, sui genitori che a volte si intromettono troppo.

Ogni persona che incontriamo sul nostro cammino è un povero che ci chiede di essere riconosciuto e accolto. Il Signore si china continuamente nel nostro abisso e ci chiede di fare altrettanto. Non possiamo attendere un segno più forte. Sarebbe contro la nostra libertà e la nostra dignità. Abbiamo «Mosè e i profeti» (Lc 17,29) cioè la legge e il richiamo alla sua perenne validità da parte di tanti fratelli e sorelle che continuano ad amare anche quando farlo costa sofferenza. Non ci servono miracoli o risurrezioni. Ci basta la parola e la fiducia del Signore, che ci parla con toni forti non certo per terrorizzarci in vista della morte, ma per esortarci adesso che siamo vivi a tirare fuori dal cuore i sentimenti migliori. Non esitiamo dunque a combattere anche noi «la buona battaglia della fede» per raggiungere, insieme ai fratelli, «la vita eterna» (1Tm 6,12).

Commenti

Unknown ha detto…
Ed è così: non basta, non mi basta stare dalla parte delle organizzazioni che vogliono fare del bene ai poveri e ai più sfortunati. Non mi basta nemmeno fare qualcosa per questi ultimi. Tale impegno, di per sé buono, nelle mie mani diventa facilmente "un bene che mi serve per sentirmi sicura".
Solo quando mi lascio "disturbare" dal mio prossimo, quando ho il coraggio di chinarmi veramante verso di lui (chiunque egli sia), di entrare in comunione con lui, di amarlo come un fratello o una sorella (qual è) provo gioia vera e profonda.
Chiedo al Signore di aiutarmi a non cedere mai alla tentazione di sentirmi a posto, a riconoscere sempre i confini del cantuccio in cui cerco di rifugiarmi.
Unknown ha detto…
Io oggi ti prego, Signore, per tutte le persone che, come il ricco, hanno creato una distanza tra sé e gli altri dando spazio ad altre cose, credendo che quello fosse il loro bene, e che ora sono sole. E ti prego anche per noi, per i momenti in cui perdiamo la fede in Gesù, "Mosè e i profeti", perché così corriamo il rischio di non lasciarci convincere "neppure se qualcuno risuscitasse dai morti"!