XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Letture: Es 32,7-11.13-14 / Sal 50 / 1Tm 1,12-17 / Lc 15,1-32

IL CONTRARIO DELL'INDIFFERENZA





Il Vangelo di domenica scorsa era stata proprio una bella sferzata. Voltandosi verso di noi, cristiani spesso stanchi e abitudinari, il Signore Gesù ci aveva apostrofato: Ma dove credete di andare? Guardate che se volete davvero imparare da me (=essere miei discepoli), dovete mettermi al di sopra di tutto! Prima degli affetti più cari, prima delle cose, prima della vostra stessa vita! Pensateci bene a diventare/rimanere cristiani; è una cosa impegnativa!


Davanti a espressioni così radicali, fuoriescono dal nostro cuore molte domande: Ma cosa vuole il Signore da noi? Fino a dove ci vuole condurre? Che cosa ha in mente? Inoltre, riemerge in noi una sottile sfiducia in questo Dio così esigente, perché non siamo ancora convinti che la sua presenza e la sua potenza si siano manifestando nel modo migliore. Anzi, diciamolo pure, molte situazioni dolorose e ingiuste che ci tocca affrontare ci spingono a pensare che Dio sia un po’ lontano e indifferente.


Le parabole della misericordia, che l’evangelista Luca ha posto nel cuore del suo Vangelo, vogliono dare una bella spallata al muro di diffidenza che abbiamo ancora verso Dio. Ci dicono due cose essenziali: che siamo preziosi per Dio e che siamo perduti!



Preziosi!

Le prime due parabole affermano questa meravigliosa e semplice realtà: l’umanità, tutta intera, è preziosa agli occhi di Dio. Potremmo addirittura spingerci fino a dire che Dio ha ‘bisogno’ di noi e che senza di noi non riesce ad essere felice! Questo è il significato più immediato nelle due storielle del pastore e della donna, i quali non si danno pace finché non hanno ritrovato la cosa perduta.


A dispetto di un Dio sommamente egoista, tutto preoccupato delle sue cose da non aver tempo per noi, il Maestro Gesù ci parla di un Padre che non riesce proprio ad essere tranquillo finché qualcuno dei suoi figli è perduto e lontano. Il Dio di Gesù è simile a un pastore che conta le sue pecore e non appena ne manca una si getta, senza timore, alla sua ricerca, finché non la trova. Così come è simile ad una donna che non si dà pace, fino a quando non ritrova tutto il suo patrimonio, anche se ciò significa dover cercare tutta la notte e non dormire.


Ecco dove si dirige Dio con estrema determinazione: a cercare i suoi figli perduti. Quelli che si sono allontanati dalla vita, dall’amore, dalla verità di se stessi. Questa per Dio è una assoluta priorità che esprime, da un lato la nostra grande dignità, dall’altro quanto siamo preziosi ai suoi occhi.


Noi continuamente immaginiamo un Dio che reagisce con «ira» (Es 32,10) ai nostri sbagli, come Mosè che si mette a pregare, per arrivare a comprendere, già nei tempi antichi, che Dio non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva (cf Ez 33,11): «Il Signore abbandonò il proposito di nuocere al suo popolo» (Es 32,14). Noi siamo più fortunati, poiché nati dopo la definitiva rivelazione in Cristo Gesù. Eppure quanta fatica facciamo a credere che ci «è stata usata misericordia» (1Tm 1,13)!


Perduti?

Forse abbiamo noi un problema di latitanza. Non Dio. Forse sono i nostri occhi che hanno bisogno di vedere meglio la realtà delle cose. Forse è il nostro cuore a non essere ancora convinto che Dio sia per noi un Padre misericordioso, che soffre quando ci perdiamo e offre la sua stessa vita per salvarci. La terza parabola ci rivela proprio questo: come possiamo vivere da figli non ancora convinti della misericordia del Padre.


C’è un primo modo che è quello del figlio minore, il quale dice al padre: «Dammi» ciò «che mi spetta» (Lc 15,12). Molte volte noi pretendiamo dalla vita tante cose, che a nostro avviso sono indispensabili per la nostra felicità. Alcune riusciamo ad ottenerle, altre no. Se viviamo di pretese, arriva prima o poi il momento in cui sperimentiamo la fame e la solitudine, come accade al prodigo figlio: «Nessuno gliene dava» (Lc 15,16).


C’è anche un altro modo per fraintendere l’amore del padre, quello che riconosciamo nel figlio maggiore, che non riesce ad essere felice quando suo fratello torna a casa: «Si indignò, e non voleva entrare» (Lc 15,28). Da una vita lavora e serve, non ha mai trasgredito un «comando» (Lc 15,29), però non conosce ancora la «gioia» (Lc 15,7.10) della misericordia. Rimprovera così il padre: «Tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici» (Lc 15,29).


Il figlio più piccolo pretende ma poi non è sazio. Quello maggiore è bravo ma non è felice. Questi figli raccontano tutta la nostra vita. Ci rivelano che, in un senso molto vero e profondo, anche noi siamo perduti, perché non conosciamo ancora l’amore di Dio per noi. Qualche volta tendiamo ad essere come il figlio minore, che si lascia ingannare dalla strategia del piacere. Più spesso ci comportiamo esattamente come il figlio maggiore, che si sottomette a Dio con la strategia del dovere. In entrambi i modi di vivere siamo perduti, perché rimaniamo privi della cosa più importante: la misericordia di Dio, che si esprime in luce sul volto e in compassione nel cuore.


Il Vangelo di oggi è come un allarme che ci vuole strappare dall’inganno di essere «giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15,7), dalla noia di essere cristiani che, pur non facendo del male a nessuno, non sono capaci di raccontare la compassione di Dio per l’uomo che vive, soffre, si perde lungo i sentieri della storia.


Il Signore è sulle nostre tracce. Ci sta cercando con amore, pazienza e attenzione. Il modo migliore per attenderlo è provare a vivere il contrario dell'indifferenza, quella misericordia che si esprime soprattutto nella capacità di vedere, commuoversi e fare festa per l’altro che viene incontro a noi.


Questa è tutta la grandezza e la santità del Dio che Gesù ci ha raccontato.


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