XXIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C

Letture: Sap 9,13-18 / Sal 89 / Fm 1,9-10.12-17 / Lc 14,25-33


SANTO ODIO


Al giorno d’oggi conosciamo un sacco di cose. È sufficiente un click e un collegamento Internet per fare il giro del mondo, per sapere che tempo farà domani, per scoprire come sono fatti i tetti delle case in Cina e le capanne in Africa. Se poi sfruttiamo parabole e ricevitori possiamo guardare programmi di approfondimento che ci erudiscono sulle più incredibili scoperte scientifiche e sulle infinite amenità della natura. Millenni di storia e di progresso ci hanno senza dubbio fatto raggiungere la capacità di conoscere e approfondire «le cose terrestri» e, da un punto di vista astronomico, anche «le cose del cielo» (Sap 9,16).


Eppure le domande più importanti della vita, circa il suo senso, la sua origine e il suo destino restano inevase. Ha proprio ragione il Sapiente che solleva interrogativi sacri e intelligenti: «Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?» (Sap 9,13).


Non è affatto facile capire cosa davvero voglia Dio, quali siano i suoi pensieri e i suoi progetti. Ci sono avvenimenti nella vita che ci lasciano enormemente perplessi. Facciamo fatica a credere in una bontà divina quando vediamo il male, la violenza, l’ingiustizia, la sofferenza attorno a noi. Perché? Qual è il progetto di Dio? Davanti a queste domande ci accorgiamo tutti di essere degli scolaretti che non hanno facili risposte, anzi abbiamo tutti bisogno di cercare e chiedere una sapienza più grande dei ragionamenti umani, proprio come ci invita a pregare la liturgia: «Donaci, o Dio, la sapienza del cuore» (ritornello al salmo responsoriale).


Il Signore Gesù nel Vangelo ci offre parole di sapienza. Accorgendosi che «molta gente andava con lui» (Lc 14,25), per nulla preoccupato dei numeri e delle statistiche, il Maestro si premura di chiarire bene alcune cose: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo» (Lc 14,26).


Per diventare sapienti, sembra dirci Gesù, dobbiamo essere capaci di odio. Un odio santo, che potremmo definire come la capacità di non mettere nessuna cosa al posto di Dio. Non si tratta evidentemente di quell’odio che medita e compie il male, ma di quell’amore per il Signore che impedisce alle relazioni che viviamo di diventare un assoluto, dal quale dipende la nostra felicità e la nostra vita.


Gesù si accorge che esiste un modo di seguirlo, di credere in lui, di essere cristiani un po’ addormentato che si dimentica l’essenziale. Un po’ come se, girandosi verso di noi, si accorgesse che siamo tutti infagottati e appesantiti da troppe cose che ci privano di quella libertà e di quella agilità indispensabili per essere suoi discepoli.


È una parola forte quella del Vangelo, che ci ricorda che nulla, in fondo, ci appartiene: né la famiglia che ci siamo creati, né la nostra vita, né i beni né i soldi che abbiamo messo da parte. E che nemmeno noi apparteniamo a nessuno, né al padre, né alla madre, ma soltanto a Dio che è Padre di tutti e dona la sua vita per noi.


Il Signore non ha paura di parlarci così, perché sa che a volte se non mettiamo un po’ di santo odio nei rapporti che viviamo finiamo col diventare schiavi gli uni degli altri e non riusciamo più a volerci davvero bene. Inoltre è convinto che noi possiamo diventare capaci di amare come lui, per questo ci ricorda a quali condizioni possiamo restare suoi discepoli, uomini e donne che imparano ogni giorno l’arte dell’amore più grande.


Infatti chi di noi andrebbe in un albergo di lusso con quatto soldi in tasca? Chi di noi entrerebbe in un ristorante nel centro della città se ha dimenticato a casa il portafoglio? Invece con Dio spesso siamo ingenui e superficiali: lo preghiamo, andiamo a Messa, diciamo di credere in lui, ma ci dimentichiamo che stiamo seguendo un Re povero e crocifisso, non qualcuno che garantirà la vita della nostra famiglia e ci risparmierà l’esperienza del dolore e della morte!


Un discorso così radicale non può restare solo una bella teoria: ha bisogno di tradursi nella realtà che viviamo. La lettera a Filemone è uno splendido esempio di come possiamo esprimere il nostro essere discepoli nelle circostanze della vita, mettendo Dio al centro dei rapporti che viviamo.


Onesimo è uno schiavo che è scappato dal suo padrone Filemone, mettendosi così contro la legge. Filemone e Paolo sono amici, li unisce la fede nel Signore Gesù. Forse per questo motivo Onesimo si rifugia da Paolo, il quale gli annuncia il Vangelo e così Onesimo diventa pure cristiano. Dopo un certo periodo Paolo decide di rimandare Onesimo a Filemone, suo legittimo padrone, accompagnato da un biglietto che è successivamente diventato uno dei libri del Nuovo Testamento, la Lettera a Filemone appunto.


In questo breve scritto, san Paolo rivolge all’amico cristiano un invito ad accogliere Onesimo con amore e rispetto, presentandolo come un «figlio» (Fm 10) generato alla vita di Dio e alla sua salvezza: «Accoglilo come me stesso... come un fratello carissimo» (Fm 17.16). Paolo non poteva e non voleva, con queste parole, abolire la schiavitù, che di fatto continuerà ad esistere nel mondo occidentale. Compie però un passo ancora più radicale: suggerisce all’amico di mettere amore e fraternità nel rapporto con il suo schiavo, perché la sua vita non gli appartiene. È molto più che l’abolizione della schiavitù a partire da una legge: è lo svuotamento della sua ingiustizia a partire dal cuore.


Di scelte simili possiamo farne tante come discepoli di Gesù. La storia cambia lentamente e se aspettiamo che siano gli altri a fare il primo passo... stiamo freschi! Esiste un modo semplice per rivoluzionare il mondo e anticipare il regno futuro: modificare le cose da dentro, mettendo amore, rispetto, pazienza in quello che stiamo vivendo.


In questo modo umile e silenzioso, tutto cambia, la storia lievita, il mondo si trasforma nel sogno di Dio.



Commenti

Anonimo ha detto…
.....quell’amore per il Signore che impedisce alle relazioni che viviamo di diventare un assoluto, dal quale dipende la nostra felicità e la nostra vita......

Questa tua frase mi ha colpito molto perchè tendo spesso ad enfatizzare l'importanza di alcune persone care nella mia vita e ciò provoca effetti deleteri quando queste relazioni per ragioni da me indipendenti vengono meno.

La fede e l'esperienza mi stanno insegnando, a piccoli passi, a valutare in modo diverso gli affetti, di cui ciascuno di noi ha bisogno, dandogli il giusto valore ma evitando di porli su un piedistallo e idealizzarli in maniera tale da credere di non poter sopravvivere senza uno di essi. Può sembrare un discorso cinico ma in realtà ciò che voglio dire è che per quanto una relazione umana sia importante nella nostra vita dobbiamo imparare ad accettarne la rinuncia seppure dolorosa per poter accogliere altre persone che sono state messe sul nostro cammino.