Mercoledì - XXIV Tempo Ordinario

Letture: 1Tm 3,14-16 / Sal 110 / Lc 7,31-35

COME BAMBINI



Non essere mai contenti è un tipico e assurdo problema della nostra società. Non ci manca nulla, eppure avvertiamo un certo languore dentro di noi, quando alla sera consegniamo la nostra anima al silenzio della notte. Forse non è una difficoltà squisitamente moderna, visto che anche il Vangelo ce ne parla.


Il Signore Gesù si accorge che la folla lo segue con una certa fatica a coinvolgersi, anzi manifestando una visibile insoddisfazione. Azzarda allora un paragone piuttosto antipatico per «uomini» che – come tutti noi – si sentono ormai adulti. Li paragona «a quei bambini» che rimangono capricciosamente fuori da ogni gioco, colpevolizzandosi a vicenda: «Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto!» (Lc 7,32).


Siamo proprio come i bambini e i loro ghiribizzi, quando ci sediamo rassegnati e stiamo a guardare il fiume della vita che fluisce davanti a noi. Ci capita quando le ferite accumulate diventano troppe e troppo dolorose, oppure quando la tentazione di preoccuparci di noi stessi si è impadronita di noi. Allora iniziamo a comportarci come bambini annoiati e nulla riesce a toccarci e a rimetterci in movimento, perché siamo diventati impermeabili.


Questa paralisi diventa seria e preoccupante quando assurge a «sapienza» (Lc 7,35), perché allora diventa giustificazione autorevole delle nostre peggiori pigrizie e immaturità. Oppure ragionevole pretesto per non accettare il destino di poter guarire dalle ferite che ancora segnano il nostro corpo. Quasi senza accorgercene abbiamo cominciato ad aderire una sapienza che non è quella del Vangelo e della croce, che ci seduce con l’illusione di non dover più presentare l’offerta della nostra vita, la sola cosa che di fatto abbiamo e possiamo donare.


Una sola attenuante può essere invocata a nostro favore. La nostra stagnante situazione potrebbe anche essere la conseguenza di un’immagine troppo grande di noi stessi, a cui abbiamo cercato di aderire senza riuscirvi. Torniamo infatti a comportarci come fanno i piccoli tutte le volte che abbiamo cercato di fare troppo i grandi.


Allora conviene ricordarci che la paternità di Dio ci dona la libertà di poter imparare il difficile gioco della vita, senza il timore che ciò richieda un disumano coinvolgimento. Bere o non bere, mangiare o non mangiare, danzare al suono del flauto o piangere al cospetto di un lamento: tutto è buono, basta saper riconoscere il momento opportuno.


L’importante è ricominciare a giocare; non stare seduti, non diventare cinici o rassegnati. Perché davanti al «grande mistero della pietà» (1Tm 3,16), siamo continuamente invitati a diventare grandi, fino alla «piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). È breve la strada che ci porta a rimanere come «bambini» (Lc 7,32). Più lunga e interessante quella che ci conduce a diventare «come loro» per ricevere in dono il «Regno di Dio» (Lc 18,16).


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