Martedì - XVII Tempo Ordinario

Letture: Es 33,7-11; 34,5-9.28 / Sal 102 / Mt 13,36-43

XXM



Le Scritture di oggi ci aiutano a comprendere meglio il nostro peccato di idolatria e le sue ripercussioni nella vita pratica. Laddove noi ci immaginiamo un dio che è ben rappresentato dal luccichio e dalla preziosità dell’oro (cf la fabbricazione/adorazione del vitello), Gesù preferisce paragonare Dio e il suo regno alla crescita graduale e fedele di un piccolo granellino di senapa, oppure alla nascosta azione del lievito che pur perdendosi nella farina riesce a gonfiarla tutta.


Dio si rivela diverso da come lo immaginiamo. Molto più paziente, molto più mite: «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e fedeltà» (Es 34,6). Noi facciamo fatica a credere che «il Signore sia buono e grande nell’amore» (salmo responsoriale) e che il suo modo di gestire la vita del mondo possa davvero tollerare che la zizzania conviva accanto al grano buono: «Spiegaci la parabola della zizzania del campo» (Mt 13,36).


Diventiamo idolatri nella misura in cui non riusciamo ad accettare questa misura eXtra eXtra Misericordiosa con cui Dio porta avanti la creazione e il suo rapporto con ogni creatura. Noi di pazienza ne abbiamo poca, Dio invece sembra non riuscire a perderla mai del tutto, infatti dice a Mosè: «Il Signore... che conserva il suo favore per mille generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato, ma non lascia senza punizione, che castiga la colpa dei padri nei figli e nei figli dei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (Es 34,7). Il Signore non può impedire che le conseguenze del male che facciamo abbiano una ricaduta per qualche generazione (3 o 4), ma in compenso egli porta pazienza per mille generazioni. In Dio prevale decisamente la misericordia sul giudizio, come i cristiani intuiranno con maggior chiarezza, dopo la Pasqua di Gesù: «la misericordia ha sempre la meglio nel giudizio» (Gc 2,13).


Proprio in forza di questa natura sempre incline al perdono che salva, il Dio di Mosè e di Gesù giudica molto meno di quanto noi facciamo solitamente. Per noi giudicare è un bisogno ineliminabile, forse perché noi per primi ci riteniamo non «giusti» (Mt 13,43). E così inneschiamo un terribile e pericoloso gioco di sguardi negativi sulle cose e sulle persone, che sottrae energie alla costruzione del vero regno di Dio, dove sono invitati i peccatori perdonati, non i giusti incalliti. La facilità con cui giudichiamo e perdiamo la pazienza ci dice con chiarezza che anche noi stiamo adorando un idolo, un dio diverso da quello che la Bibbia ci rivela.


Sono tanti gli idoli che la società contemporanea ha saputo fabbricare: non serve elencarli e demonizzarli tutti. In modo estremamente sintetico potremmo definirli come tutte le cose che ci impediscono di essere misericordiosi, di avere pazienza con noi e con gli altri.


Nell’attesa di fare piazza pulita di tutte queste illusorie immagini divine dentro di noi, forse conviene dar retta al Maestro e accettare l’idea che giudicare non è nostro compito, ma prerogativa di Dio che dà la sua vita per noi: «Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di di iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti. Allora i giusti splenderanno come il sole nel regno del Padre loro» (Mt 13,41-42). Sgomberiamo allora il cuore, anziché la presenza degli altri attorno a noi. Già san Paolo lo raccomandava ai suoi cari cristiani di Corinto: «Non vogliate perciò giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà le intenzioni dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio» (1Cor 4,5).


Questo non significa rinunciare a vedere i problemi e le situazioni negative che ogni giorno dobbiamo affrontare. Più semplicemente vuol dire rimanere dietro al Dio che abbiamo cominciato a conoscere, accettando che molta della sua misericordia sia del tutto simile a quelle parti del mondo e dell’universo di cui conosciamo l’esistenza. Ma solo per sentito dire. Solo con la testa. Domani, speriamo, anche con il cuore.


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