Venerdì - VIII Tempo Ordinario

Letture: Sir 44,1.9-13 / Sal 149 / Mc 11,11-26


UN FICO SECCO!


L’immagine del fico, l’albero con foglie larghe e ruvide, che non porta frutto perché inaridito, è diventato un celebre modo per descrivere il niente, la pochezza, la misura minima. Per Gesù invece rappresentava bene l’uomo sterile a cui si indirizzava la parola forte del suo Vangelo.


È un Maestro deciso e arrabbiato quello che il testo Sacro ci invita oggi a contemplare. Davanti ad una religiosità che degrada il rapporto con Dio ad un mercimonio, si scatena la sua intensa rabbia: «Ed entrato nel tempio si mise a scacciare quelli che vendevano e comperavano» (Mc 11,15). Poco prima Gesù aveva maledetto «un fico che aveva delle foglie» ma nessun «frutto» (Mc 11,13): «Nessuno possa mai più mangiare i tuoi frutti» (Mc 11,14).


Il Signore Gesù «ama il suo popolo» (salmo responsoriale), ma non sopporta il male che facciamo a noi e agli altri. Non si rassegna davanti a quel modo superficiale di vivere nel quale spesso ci impigriamo, come alberi pieni solo di foglie: tanta apparenza e nessuna sostanza! Il Signore ha «fame» (Mc 11,12) di noi, del nostro amore e dei frutti che in noi possono maturare. Non si dimentica che siamo «tralci» (Gv 15,5) buoni, scelti e costituiti affinché il nostro «frutto» (Gv 15,5) sia abbondante e «rimanga» (cf Gv 15,16).


Per questo, ad un certo punto, ci maledice, sfidando coraggiosamente il nostro svenevole stupore: «Maestro, guarda: il fico che hai maledetto si è seccato» (Mc 11,21). Non aggiunge alcuna condanna a quanto noi abbiamo già deciso usando male la nostra libertà. Semplicemente esplicita le conseguenze delle nostre scelte, costringendoci a guardare in quale pericolosa direzione si è incamminata la nostra vita. La sua maledizione è un salutare avvertimento, una voce di autentico amore del tutto diversa da quei silenzi che coprono la verità pro bono pacis, di cui sono piene le nostre giornate e le nostre case.


Dio non ha paura di ratificare la maledizioni che stanno maturando nella nostra vita e di invitarci ancora una volta alla conversione. Non vuole che i nostri giorni svaniscano «come se non fossero mai stati» (Sir 44,9). Il suo desiderio è che di noi si possa presto comporre un «elogio», come «uomini illustri» (Sir 44,1) la cui «gloria non sarà offuscata» (Sir 44,13).


Allora ci invita a credere, a ritrovare fiducia nell’amore gratuito come unica strada che conduce alle sorgenti della vita eterna: «Abbiate fede in Dio!» (Mc 11,22). A noi spetta il compito di ricomprendere il cammino di fede non come un’operazione dell’intelletto o un’appartenenza ad un certo gruppo religioso, ma come un modo di adoperare la nostra libertà. Avere fede significa guardare Dio intensamente e poi vivere il rapporto con gli altri secondo la logica dell’amore più grande, fatto di accoglienza e di perdono.


La fede non è qualcosa che ci manca, ma è la convinzione che non sia un inganno sconveniente percorrere la strada umile e povera della croce. Credere significa essere posseduti dal desiderio di imitare con tutta la vita il Maestro Gesù. Comprendere che, in fondo, rientrare nella danza dell’amore è l’unica cosa autentica che ci resta da fare.


A qualsiasi prezzo. Contro ogni maledizione.



Commenti

Anonimo ha detto…
Il brano evangelico di oggi ci mostra un Gesù che non siamo soliti vedere: è arrabbiato, colmo d'ira, le sue parole sono forti, piene di rabbia, ci fanno paura...
Ma Gesù ci ama, ci vuole tutti salvi, ecco perchè ci rimprovera, Egli detesta il male ed oggi purtroppo il mondo ne è pieno.
Quanto ho letto nel tuo scritto mi ha fatto tornare alla mente un consiglio di un mio insegnante di religione che diceva così:"Se ogni giorno mettiamo da parte qualche granellino di bene, al termine della nostra vita troveremo, con nostra grande meraviglia, una montagna di bene."
Ben vengano quindi le parole forti di Gesù necessarie per spronarci a portare frutti: frutti di bontà, di santità, di amore verso di Lui e verso i fratelli.

Lucia