Mercoledì della IV settimana di Pasqua

Letture: At 12,24-13,5 / Sal 66 / Gv 12,44-50

COME LUCE

La Parola di Dio, nei giorni che succedono l’ottava di Pasqua, ci ha voluto dire che il corpo santo e glorioso del Signore Gesù, «il quale è stato messo a morte per i nostri peccati ed è stato risuscitato per la nostra giustificazione» (Rm 4,25), è un pane di vita da masticare con la bocca e da assimilare con il cuore, che ci fa rinascere ad un’esistenza eterna (II e III settimana di Pasqua). Nutrirsi di tale corpo significa arrivare a credere nel suo significato di amore e di vita donata e, quindi, lasciarsi trasformare in esso (lunedì e martedì IV settimana). Metafore adeguate a farci ri-contemplare la nostra responsabilità battesimale, cioè la nostra dignità di figli di Dio, che si esprime in una progressiva e libera assimilazione alla vita di Cristo, che in noi cresce mediante lo «Spirito Santo» (At 13,2).


Il Vangelo di oggi lascia intuire una difficoltà per nulla banale in questo lungo cammino. Il Signore Gesù grida: «Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato» (Gv 12,44). Dopo averci guidato ad una lettura profonda dei suoi segni, il Maestro sembra volerci insegnare a guardare in profondità il mistero della sua stessa persona. Nel dire questa cosa Gesù decide addirittura di gridare, quasi a voler mettere a tacere quei rumori di fondo che dentro di noi disturbano sempre un ascolto attento della sua parola. Ma quali potrebbero essere questi rumori di fondo? Forse i ragionamenti umani che nascono dal nostro cuore segnato ancora dal peccato e dalla paura, quei pensieri che ci inducono a vedere sempre gli altri come cose, da dominare o da scartare. Invece Gesù chiarisce a voce alta che in lui non dobbiamo fissarci esclusivamente sulla sua persona, ma cogliere la sua relazione con colui che lo ha mandato.


Il Signore vuole sottrarsi ad un nostro modo di credere che cerca di possedere la divinità per garantirsi – e dunque salvarsi – la vita! Credere nel Figlio significa avere fiducia nel Padre che comanda una sola cosa: «vita eterna» (Gv 12,50). Questo modo di fidarsi di Dio ha una conseguenza bellissima e terribile: diventare «come luce» (Gv 12,46). Niente di meno. Niente di più. La luce va e si dona. La luce non si vede, eppure illumina ogni cosa. La luce splende e le tenebre non riescono ad afferrarla. Essere luce, essere relazione è la conseguenza della Pasqua. Se davvero crediamo che la vita di Gesù sia stata meritevole di risurrezione, non possiamo che praticarla anche noi, amando a fidandoci di quel Dio che possiamo chiamare Abbà-Padre!


L’eucaristia ci sostiene proprio in questa faticosa maturazione: diventare capaci di relazione, non avere paura di donarci in ciò che facciamo. Questo è risorgere! Risollevare la propria vita da quel modo di esistere autocentrato e autoreferenziale. Non rimanere «nelle tenebre» (Gv 12,46), ma gettarsi alle spalle la paura di fidarsi e di affidarsi.


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