Martedì della VI settimana di Pasqua

Letture: At 16,22-34 / Sal 137 / Gv 16,5-11


CON-VIENE


Il senso di alcune cose negative che ci accadono lo scopriamo dopo, a posteriori. In un primo momento siamo semplicemente angosciati e tristi. Esistono nella nostra vita curve, imprevisti, improvvisi cambiamenti che hanno il potere di travolgerci, come una violenta tempesta, che fa cadere dai nostri rami le foglie della serenità e della gioia.


Non sempre però le cose sono quello che sembrano. A Paolo e Sila accade un incidente che potrebbe sembrare un evidente fallimento pastorale. Avendo scacciato «uno spirito di divinazione» che «procurava molto guadagno» (At 16,16) nella città di Filippi, «la folla» e i «magistrati» insorsero contro di loro «ordinarono di bastonarli e, dopo averli caricati di colpi, li gettarono in prigione e ordinarono al carceriere di far buona guardia» (At 16,22-23). Chissà cosa avranno pensato i due apostoli di questa aggressiva reazione? Come si saranno sentiti di fronte all’esplosione di questo improvviso odio? Domande a cui non sappiamo rispondere! Conosciamo invece quale fu il loro modo di reagire alla difficile situazione. Racconta Luca che «Verso mezzanotte, Paolo e Sila in preghiera cantavano inni a Dio, mentre i carcerati stavano ad ascoltarli» (At 16,25).


I due apostoli, memori che «la luce nelle tenebre splende» (cf Gv 1,5), non si lasciarono abbattere dalla «tristezza» che probabilmente «aveva riempito il loro cuore» (Gv 16,6). Scelsero la via della preghiera, cioè dell’affidamento e dell’invocazione. E accadde una cosa straordinaria, un vero e proprio «terremoto»: «tutte le porte si aprirono e si sciolsero le catene di tutti» (At 16,26), soprattutto quelle interiori. Infatti il carceriere dopo aver ascoltato «la parola del Signore» (At 16,32), «si fece battezzare con tutti i suoi», poi accolse gli apostoli in casa «e fu pieno di gioia insieme con tutti i suoi per aver creduto in Dio» (At 16,33-34). Paolo e Sila continuarono a credere e questo diventò occasione di libertà dall’ignoranza e dal peccato per un uomo che era abituato a tenere legate e schiave le persone.


Anche Gesù, mentre si avvicina allo scomodo altare della croce, non si sente solo ma continua ad avere fiducia che il Padre sia con lui (cf Gv 16,32). Non ha paura di crescere fino alla perfezione dell’amore il Figlio amato e prediletto e cerca di invitare i suoi amici a percorrere questo stesso cammino di liberazione e di libertà: «Conviene a voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò» (Gv 16,7).


Gesù ci propone di vedere con simpatia la sua separazione da noi, perché questa distanza che appare amara e sconveniente, è in realtà lo spazio indispensabile a noi per nascere e crescere attraverso la forza interiore che lo Spirito d’amore infonde nel nostro cuore. Il Signore dopo essere stato ‘con’ noi se ne va, per poter essere finalmente ‘in’ noi, e farci passare da un’unione affettiva, ad un’unione effettiva con lui.


Dio non teme di farci vivere distacchi dolorosi durante la vita, perché è davvero convinto che noi siamo in grado di assumere quella solitudine profonda che ci aiuta a crescere come figli amati, fino «alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Per questo molte cose che accadono contro la nostra volontà e la nostra serenità, in realtà nascondono sentieri di speranza e di vita accessibili a noi solo nel cuore della notte e attraverso l’esperienza di preghiera. Come Paolo e Sila! Attraverso questi momenti ci succede di crescere nella conoscenza di noi stessi e di Dio. Infatti nel tempo della Chiesa, che dura fino al ritorno del Signore Gesù, noi impariamo a conoscere la grande relazione che ci unisce a lui attraverso la guida interiore dello Spirito Santo, che ci aiuta a capire ciò che sempre fatichiamo a credere (Il Padre ci dona il suo Figlio per amore), ciò che non osiamo quasi mai sperare (siamo giustificati per grazia) ciò che in fondo temiamo (il giudizio di condanna che grava su ogni uomo in questo mondo).


Ed è questo – non la morte, non la sofferenza – il nostro vero problema! Non sappiamo ancora da dove veniamo e verso dove stiamo andando: l’amore infinito che nessuno ha mai visto, ma il Figlio ci ha raccontato (cf Gv 1,18).


Commenti

Unknown ha detto…
Carissimo fra Roberto,
come è vero che a volte, quando meno ce lo aspettiamo, le negatività della vita ci colpiscono, ci traumatizzano, fino a farci perdere la nostra serenità.
A differenza di Paolo e Sila che, senza abbattersi, riuscirono ad ottenere effetti straordinari affidandosi unicamente alla preghiera, la nostra capacità di reagire agli sconvolgimenti della vita non pretende di generare fatti così eclatanti.
Comunque, per la mia personale esperienza, la via della preghiera, dell’affidamento al Signore e dei sacramenti resta l’unica modalità per “ricongiungere ai nostri rami secchi le foglie della serenità e della gioia".

Giovanna