Giovedì SANTO

Letture: Es 12,1-8.11-14 / Sal 115 / 1Cor 11,23-26 / Gv 13,1-15

FINO ALLA FINE

Inizia dopo l’amore, dopo aver amato. Inizia alla «fine» l’amore, quando si sono ormai esaurite quelle circostanze che possono rendere ambiguo il dono, offuscandone la gratuità, allora comincia il momento di «passare» (Gv 13,1) ad un amore «più grande» (Gv 15,13). L’amore diventa puro quando il solo motivo che resta per donarsi è la gioia e la libera scelta di farlo. Non più in funzione di quello che si è ricevuto o si potrebbe ricevere; semplicemente per rimanere fedeli a se stessi e non trattenere quello che trabocca dal cuore.

Anche per Dio amarci è stato un cammino. Nei tempi antichi ha iniziato a manifestarci la sua misericordia attraverso il dono della salvezza, quando liberò i nostri padri dalla schiavitù dell’Egitto. In quel tempo «tutta la comunità di Israele» doveva corrispondere all’iniziativa del Signore attraverso l’offerta di un «agnello» (Es 12,passim), da immolare «al tramonto» (Es 12,6). L’invito a cena era divino, la carne e il sangue invece doveva procurarla l’uomo, per dimostrare di non avere altri dèi dentro il recinto dei suoi affetti: «Il sangue (dell’agnello) sulle vostre case sarà il segno che voi siate dentro» (Es 12,13).


È stata una tappa fondante, «l’inizio» (Es 12,2) dell’alleanza d’amore di Dio con il suo popolo, una vera e propria «festa del Signore» da celebrarsi «di generazione in generazione, come un rito perenne» (Es 12,14). Ma l’offerta d’amore da parte del Signore era ancora ambigua, incompleta. Dio aveva ancora bisogno che noi contribuissimo al banchetto. Il popolo poteva ancora pensare che Dio fosse un signore a cui dover sacrificare qualcosa della vita e dei doni ricevuti, un divino sanguisuga. Divenne invece perfetto «nella pienezza dei tempi» (Ef 1,10), quando il Signore ci ha amato «sino alla fine» (Gv 13,1) donandoci la Pasqua e anche l’agnello: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me» (1Cor 11,24). Alla fine, dopo essere stati amati, abbiamo «ricevuto» l’amore infinito che Dio desidera trasmetterci, la sua vita e la sua morte per noi.


Per noi pure l’amore non può che essere un cammino. Da ricominciare sempre e, in alcuni momenti, da consumare «sino alla fine». Dice Paolo ai cristiani di Corinto: «Ogni volta che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga» (1Cor 11,26). Nel mistero dell’eucaristia noi entriamo in una reale comunione con il cuore di Cristo, capace di scegliere un amore pieno e perfetto, che desidera renderci partecipi del suo stesso impeto di carità. Per questo Gesù dopo la lavanda dei piedi ha detto: «Vi ho dato l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi» (Gv 13,15). Troppe volte non siamo coscienti di avere questa capacità d’amore, oppure trascuriamo le occasioni di metterla in pratica. Ci dimentichiamo che se non consumiamo la passione di Dio nella nostra vita noi annunciamo solo la sua morte, ma non anticipiamo la sua venuta. Diventiamo testimoni tristi della sua sofferenza, e non martiri luminosi della sua gioia di amare fino alla fine.


Amare non è quella cosa spontanea e facile che abbiamo fatto in passato. Amare è quella scelta difficile e per nulla scontata che possiamo fare oggi e domani, affrontando i limiti invalicabili che il tempo ha fabbricato attorno a noi, nei rapporti che abbiamo stabilito, nei legami familiari, nelle storie d’amore, nella vita di tutti i giorni. Là dove ci sembra di vedere solo la fine dei nostri sogni e dei nostri desideri, c’è in realtà l’inizio di un’ora amara e sublime, quella in cui possiamo fare ancora tantissimo: amare come siamo stati amati da Cristo. Offrire insieme a lui la nostra vita e la nostra morte.


Fino alla fine.



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