IMMER(GER)SI

III Domenica di Avvento — Anno C
Dopo gli opportuni richiami a leggerezza e raccoglimento, questa domenica la liturgia decide di orientare la nostra preghiera verso un orizzonte di gioia. Le parole profetiche di Sofonia e gli inviti festosi dell’apostolo Paolo consigliano la letizia come adeguata preparazione ad accogliere il Signore che viene a visitarci nella “fragile carne della nostra umanità” (san Francesco).

Sorridere
«Rallégrati, figlia di Sion, grida di gioia, Israele, esulta e acclama con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!» (Sof 3,14); «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. Il Signore è vicino!» (Fil 4,4.5). Sarebbe bello riuscire a sintonizzarsi rapidamente con questi imperativi, aderendo spontaneamente al loro invito, ma non è scontato poterlo fare. La vita non scorre sempre in armonia con il calendario liturgico e talvolta non si è capaci di sprizzare gioia a comando. Proprio in questi giorni di un altro Avvento — come tanti altri già vissuti —, può succedere di essere visitati dalla malattia, di dover affrontare la morte di una persona cara, di sentirsi soli e perduti, profondamente tristi in mezzo a un mondo che sembra correre sempre più veloce e senza di noi. Soprattutto può capitare di non aver proprio alcun sorriso da esibire, nessuna speranza da stringere al cuore, pur essendo più che disposti a credere che il Signore voglia rinnovarci «con il suo amore» (Sof 3,17), pur avendo fatto esperienza della sua fedeltà «in ogni circostanza» (Fil 4,6) del nostro cammino. Eppure — caparbia — la Parola di Dio ci comanda di essere felici, di partorire sorrisi, di irradiare gioia.

Fare giustizia
Come fare, o meglio «cosa fare?» potremmo chiederci, come già hanno fatto «le folle» radunate attorno a «Giovanni» (Lc 3,10) il precursore del Cristo. Interessante, piena di rivelazione la sua articolata risposta. A tutti diceva: «Chi ha due tuniche, ne dia a chi non ne ha, e chi ha da mangiare, faccia altrettanto» (3,11); ai «pubblicani» invece: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato» (3,13) e ad «alcuni soldati»: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno; accontentatevi delle vostre paghe» (3,14). Cioè: condividete, non esigete, non estorcete. Indicazioni giuste, ragionevoli. Forse non così ovvie però da essere rintracciabili nelle nostre programmazioni settimanali. Non comincia, infatti, proprio dall’incapacità di condividere la nostra quotidiana ribellione al vangelo? Non è precisamente il “dare” quel verbo che facilmente smettiamo di coniugare in prima persona, soprattutto con le persone più prossime a noi? Facilmente poi, la mano chiusa si trasforma in mano violenta, che comincia a esigere e a estorcere, fino a diventare capace di trattare male l’altro che ci sta accanto? Giovanni dice che per attendere il Signore  dobbiamo continuare — o ricominciare — a mettere giustizia in quello che facciamo, facendo attenzione proprio alle piccole ingiustizie quotidiane, con cui tendiamo a isolarci. Prepararsi al Natale significa ritrovare il coraggio di dare un sorriso e una parola a chi, forse da tempo, attende da noi solo un gesto di fraternità e di fiducia; rinunciare a utilizzare logiche di potere per pretendere dagli altri ricariche di affetto e di attenzione.

Immergersi
Se ci rendiamo disponibili a osservare questi consigli, allora la nostra vita si immerge di nuovo nelle acque battesimali, al confine tra la nostra forza e l’amore di Dio che ci viene incontro. Dice Giovanni: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco» (3,16). Il Natale di Dio nella nostra umanità assomiglia alla venuta di un fuoco, che brucia la parte più fasulla e infantile della nostra esistenza. Le più grandi purificazioni del nostro “io” egoista avvengono sempre davanti alla forza incandescente di una tenerezza, non di fronte alla forza apparente di un rimprovero e di un’intimidazione. Proprio facendosi piccolo, povero come noi, Dio viene a gettare un potente giudizio sulla nostra distanza da noi stessi, sulla nostra feriale disumanità. Il mistero dell’Incarnazione diventa imperativo a gioire, nella misura in cui siamo disposti a mettere in discussione il nostro modo di vivere, ascoltando la voce di un Dio che chiede — ancora una volta — alla nostra umanità di essere semplicemente accolto, di poter porre la sua tenda in mezzo a noi, per poter crescere dentro i confini della nostra libertà. Tornare a gioire, dopo essersi di nuovo immersi nella (nostra) realtà e nelle (nostre) responsabilità, diventa possibile a partire dalla buona notizia che Dio è tanto — troppo — felice di venire a noi, per partecipare a tutta la nostra vita: «Il Signore, tuo Dio, in mezzo a te è un salvatore potente. Gioirà per te, ti rinnoverà con il suo amore, esulterà per te con grida di gioia» (Sof 3,17). Il «fuoco inestinguibile» (3,17) del suo amore può darci la forza di non angustiarci «per nulla» (Fil 4,6) e di rimanere dentro «la pace», quella che «supera ogni intelligenza» e custodisce i nostri cuori, spesso agitati e stanchi, in «Cristo Gesù» (4,7).

Commenti