DARE (E VENIRE) ALLA LUCE

Venerdì della VI settimana di Pasqua
Le attese della vita — quelle incomprensibili pause che ci chiedono di pazientare ancora un poco — sviluppano un’enorme varietà di sentimenti dentro di noi. Tutti legati in qualche modo a ciò che, in fondo al cuore, stiamo da sempre aspettando. Ogni attesa è inevitabilmente condizionata dall’evolversio delle cose attorno e davanti a noi e dal disegno che in esse riusciamo a scorgere. Altro è gridare per una colica renale, altro è farlo in occasione di un parto per mettere al mondo una vita. Nel vangelo di oggi, il Signore Gesù fa ricorso proprio a questa’ultima naturalissima immagine, per intercettare l’inquietudine dei suoi amici.

«La donna, quando partorisce, è nel dolore, perché é venuta la sua ora;
ma, quando ha dato alla luce il bambino, non si ricorda più della sofferenza,
per la gioia che è venuto al mondo un uomo» (Gv 16,21) 

Il Maestro sta parlando a discepoli spaventati e fragili, che vivono lo sgomento per la situazione di ostilità che si è venuta a creare attorno a loro. Per questo li invita a non concentrare l’attenzione solo sulla tristezza, sentimento capace di colmare in poco tempo tutto lo spazio del cuore, paralizzando le risorse della nostra razionalità e soffocando la speranza. E annuncia loro che la sofferenza e il dolore non sono esperienze sterili, ma finalizzate a una misteriosa felicità che sta per realizzarsi, come succede a una madre, quando la sua gioia non può che compiersi tra urla di dolore e convulsioni del corpo. Queste parole assomigliano a quell’irrobustimento interiore che il Signore dona a Paolo per aiutarlo a seminare con generosità e fedeltà l’annuncio del vangelo. 

«Non avere paura, ma continua a parlare e non tacere, perché io sono con te 
e nessuno cercherà di farti del male: in questa città ho un popolo numeroso».
Così Paolo si fermò un anno e mezzo, insegnando fra loro la parola di Dio (At 18,9-11)

Quando ci capitano avvenimenti non calcolati e non desiderabili, rischiamo di far funzionare male quell’organo stupendo e delicato che è la nostra memoria. Tendiamo a ricordare solo i sentimenti di paura e angoscia provati negli ultimi istanti e sprofondiamo in fretta nel buio e nella solitudine. Questo, in fondo, è lo spavento più grande che conosciamo, il timore che qualcuno o qualcosa possa toglierci ciò per cui abbiamo sorriso e reso grazie. Qui si inserisce la voce di Dio, capace con il suo grande amore di ricordarsi sempre di tutto e di tutti, non assolutizzando mai un segmento della storia come invece facciamo noi a causa del nostro egoismo. Le sofferenze non cercate ma accolte, infatti, nelle mani di Dio diventano passaggi nei quali qualcosa di nuovo può venire alla luce. Il mistero pasquale introduce nelle relazioni e nelle cose che viviamo una frattura che matura le nostra libertà e ci conduce oltre quello che abbiamo già conosciuto e sperimentato. Dentro una gioia più grande.  

«Così anche voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà 
e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,22)

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