AL RIFUGIO

Mercoledì – II settimana del Tempo di Quaresima
L’interrogativo che il profeta Geremia si pone nell’ora della persecuzione, quando i capi di Israele tramano insidie contro di lui a causa del suo scomodo messaggio da parte di Dio, è anche la nostra voce, la nostra paura più nascosta. Cosa c’è di peggio che amare e non essere ricambiati? Restare fedeli e venire traditi? Offrire un sorriso e ricevere indifferenza?

«Si rende forse male per bene? 
Hanno scavato per me una fossa» (Ger 18,20)

Anche il Signore Gesù — osservando l’ostilità crescere attorno a sé — si accorge che le nubi si addensano lungo la sua strada. Come il profeta ha cercato di parlare «in favore» della gente, soprattutto dei poveri e dei piccoli. Ha rivelato la misericordia del Padre, provando a cancellare ogni residuo sospetto di un Dio pieno d’ira e assetato di vendetta nei confronti dell’uomo. Eppure alla fine Gesù è costretto a riconoscere che l’odio sta per sferrare il suo colpo micidiale. Condividere questi pensieri con i discepoli è rivelare a loro — e a noi — fino a che punto il bene non deve temere il male. 

«Ecco, noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’uomo sarà consegnato 
ai capi dei sacerdoti e agli scribi; lo condanneranno a morte e lo consegneranno 
ai pagani perché venga deriso e flagellato e crocifisso, e il terzo giorno risorgerà» (Mt 20,18-19)

Il mistero del rifiuto e della persecuzione non sta scritto solo nei testi sacri, ma nelle cronache di vita quotidiana. Lo sperimentiamo nelle vicende familiari, negli ambienti di lavoro, nelle relazioni che ci portiamo avanti spesso tra incomprensioni e sofferenze. Ma, quando  il cuore si congela e paralizza, scivoliamo nell’inganno di credere che per sfuggire a questo tragico epilogo sia necessario cercare di salire e conquistare un posto dove poter vivere tranquilli, al riparo da traumi e infortuni. Lo stesso pensiero avuto dalla madre dei figli di Zebedèo.

«Di’ che questo miei figli siedano uno alla tua destra 
e uno alla tua sinistra nel tuo regno» (20,21)

Finché concepiamo la nostra vita come un cammino individuale, non potremo che aspirare a posizioni di grandezza che ci regalino l’illusione di essere inattaccabili, protetti dal rischio di essere colpiti, feriti e uccisi. Solo una vita compresa in relazione agli altri ci salva da questa illusione di sicurezza, che è in realtà certezza di solitudine. Poter dire “noi” mentre si sperimenta un grande dolore personale — come hanno fatto Geremia e Gesù — è il segno di una conversione a Dio come Padre e all’umanità come corpo di cui siamo partecipi. In questo misterioso corpo si è al sicuro non quando non piove, ma quando risplende il sole del servizio. Rifugio da ogni solitudine. 

«Tra voi non sarà così; ma chi vuole diventare grande tra voi, sarà vostro servitore
e chi vuole essere il primo tra voi, sarà vostro schiavo» (20,26-27)

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