IN GRADO DI SENTIRE

Lunedì – II settimana del Tempo Ordinario
Il carattere sacerdotale — che nella comunità cristiana tutti acquisiscono con il battesimo e alcuni anche con il ministero ordinato — è descritto dall’autore della lettera agli Ebrei in termini sorprendenti. Da una parte il sacerdote è assimilato all’idea con cui, da sempre, in ogni religione egli è rappresentato: qualcuno che svolge una funzione di mediazione tra terra e cielo, che invoca benedizioni da Dio presentandogli preghiere e offerte. Poi, però, aggiunge un tratto unico, che attinge alla paradossale figura sacerdotale rivelata nel Cristo crocifisso.

Egli è in grado di sentire giusta compassione per quelli che sono nell’ignoranza e nell’errore,
essendo anche lui rivestito di debolezza. A causa di questa egli deve offrire
sacrifici per i peccati anche per se stesso, come fa per il popolo (Eb 5,2-3)

Dopo l’incarnazione di Dio il sacerdote non è più — o almeno non dovrebbe essere — una persona che entra a far parte di una casta privilegiata, dove si amministra il potere divino in favore degli uomini restando però, in qualche modo, sempre estranei alle condizioni di fragilità e di sofferenza che segnano il cammino di tutti in questo mondo. Secondo il vangelo, essere sacerdoti significa diventare pienamente partecipi del destino di prova e di sofferenza che ogni essere umano conosce e patisce nel corso della sua vita. 

Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime,
a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito. 
Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, 
divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono (5,7-9)

Il Signore Gesù ha potuto abbandonarsi pienamente (lett.: “prendere bene”) perché ha vissuto il mistero del dolore con un cuore sacerdotale. Come un’occasione di sentire fino in fondo il dolore presente nella nostra umanità e di imparare a obbedire al nostro diritto di ricevere salvezza. Così ha ha inaugurato un modo di vivere, che non deve più prestare il fianco a vecchie logiche di riparazione o di propiziazione. Rivestirci di debolezza. Essere vulnerabili fino a poter sentire la nostra e l’altrui povertà. Imparare anziché fuggire. Questi sono i verbi della vita nuova. Da coniugare umilmente, perché non si strappi lil tessuto dell’umanità ricucito dalla croce del Signore. Soprattutto in questi giorni di speciale preghiera. Nei quali noi cristiani speriamo di poter tornare a essere presto una cosa sola. Ai nostri occhi prima che a quelli del mondo. 

«Nessuno cuce un pezzo di stoffa grezza su un vestito vecchio; 
altrimenti il rattoppo nuovo porta via qualcosa alla stoffa vecchia 
e lo strappo diventa peggiore» (Mc 2,21)

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