LE REGOLE DEL GIOCO

XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno A

L’amore è un gioco esigente, meraviglioso e terribile, come tutte le cose che chiedono — e offrono — una misura piena al cuore. L’arte di viverlo è, da sempre, tra i mestieri più difficili da praticare e tramandare. Oggi su questa fondamentale avventura umana pende una minaccia mortale. Nei ritmi serrati, angosciati e frenetici del nostro terzo millennio, l’amore sembra essere diventato uno «straniero», privo di stima e accoglienza. I progetti d’amore non fanno comodo all’economia e sollevano paure nella nostra fragile psiche. Meglio accontentarsi di rapporti provvisori o occasionali, coltivare il disimpegno, promuovere il precariato degli affetti. Dio, naturalmente, ha qualcosa da dire su questo delicato argomento. Sin dai tempi antichi non tiene nascoste le regole del gioco, tutte da ascoltare.  

Uno
«Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (22,37). Ai farisei che lo interrogano sul «grande comandamento» racchiuso nella Legge, il Maestro svela senza tentennamenti qual è la prima regola del gioco dell’amore. Questa divina raccomandazione sembra un indebito trasferimento su piani trascendenti di una realtà che ha molta più attinenza con la sfera umana. L’amore — diremmo noi forse — si dovrebbe imparare meglio guardando la terra piuttosto che contemplando il cielo. E invece no, sembra dire il Signore. E non perché prima di arrischiarsi nel terreno degli affetti bisogna trovare una raccomandazione celeste e assicurarsi un destino favorevole con pratiche pie. Bisogna amare prima Dio degli uomini per scoprire quanto grande è il nostro cuore e quanto infinita la nostra capacità di donazione e dedizione. Amare Dio non serve tanto a Dio — anche se sicuramente ne é estremamente felice — ma serve a noi, per trovare la misura di quanto possiamo donarci e accogliere. E per mettere libertà a fondamento del nostro bisogno di essere amati e di amare. Fino a quando non siamo in una relazione seria e serena con il Dio, qualsiasi tentativo di amore (verso un coniuge, un compagno, un figlio, un amico, una professione) rischia di diventare un atto di idolatria, cioè di esaltazione esagerata di qualcuno o di qualcosa che non potrà mai riempire fino in fondo il nostro cuore. Come mai, infatti,  restiamo così male quando qualcuno non ci corrisponde in modo totale e incondizionato ed entriamo nella spirale angosciosa della revisione (infinita) di noi stessi? Non sarà, forse, che ci stiamo dimenticando di praticare l’amore verso Dio, atto preliminare che ossigena e dà equilibrio alla sempre fragile trama dei nostri rapporti? Non sarà che stiamo provando e specchiarci in tanti volti, dimenticando che la nostra prima, fondamentale carta d’identità è il dolcissimo volto di «suo Figlio, che egli ha risuscitato dai morti, Gesù» (1Ts 1,10)?

Due
Bisogna amare gli altri perché sono come noi. E noi siamo, o saremo, come loro. Seconda regola: dobbiamo volerci bene perché siamo tutti nella stessa barca. Il «forestiero» (Es 20,20), «la vedova o l’orfano» (20,21) non sono condizioni spiacevoli che alcuni patiscono, ma figure simboliche in cui tutti possiamo riconoscerci. Il Signore parla al popolo con estrema chiarezza, invitandolo a non dimenticare ciò che è stato in terra d’Egitto e a non ritenere la prosperità e il benessere come diritti acquisiti, ma come doni ricevuti. L’amore fraterno si radica nella coscienza di essere oggetto di misericordia da parte del cielo. Più precisamente, il dovere di guardare all’altro come un fratello, con cui condividere la gioia e la sofferenza di vivere, nasce dal fatto che Dio è «pietoso» (20,26), aggettivo tanto desueto e necessario nel nostro tempo. La nostra generazione non è né peggiore né migliore di quelle che ci hanno preceduto. Le mancano occhi di pietà, per poter fissare lo spettacolo della realtà fino ad assumerne il grido di rassegnazione e disperazione, per incontrare il «prossimo» (Mt 22,39) con attenzione e cortesia. 

Tre
La terza regola non è scritta, ma implicitamente affermata: et, et, l’amore a Dio è inscindibile da quello verso il prossimo. L’esperienza ce ne dà abbonante conferma. Gettarsi nelle braccia degli altri senza prima sapere chi siamo veramente — figli di Dio amati — è un’esperienza che può fare molto male. La nostra società — a telecamere spente — questo lo sa, anche se non sempre è disposta a riconoscerlo. Amare è davvero il senso e la priorità della vita, ma per poterlo fare occorre quella libertà interiore che ci rende capaci di darci senza buttarci via, di accogliere senza continuamente mettere sotto esame. Amare significa coinvolgersi gradualmente e responsabilmente con gli altri. Sia quelli che abbiamo scelto, sia quelli che ci sono capitati accanto. Senza confidare troppo nel bene ricevuto, e senza permettere ai nostri sensi di colpa e di inferiorità di bloccare sul nascere l’offerta della nostra vita. Amarci senza lasciarci prima amare da Dio è invece il folle, audace salto acrobatico che costa la vita all’uomo. Dio non ci chiede di farlo. Ma altrettanto assurdo è rinchiudersi un un amore verso Dio che non accetta di concretizzarsi in amore verso il prossimo, che non è mai disposto al sacrificio della mente, dell’anima e del cuore. Perché l’amore, presto o tardi, chiede a tutti di donare senza capire, di perseverare senza gioire, di mettere il piede in una e non in due staffe. Certo, si tratta di scegliere una vita che si svolge «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (1,6). Ma cos’altro desiderare per partecipare e — perché no? — vincere al gioco dell’amore?


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