COME SENTINELLA

XXIII Domenica del Tempo Ordinario – Anno A
In questa domenica la liturgia della Parola invita a chiedere al Signore la (ri)attivazione di una bella qualità del cuore, la capacità di renderci «sensibili alla sorte di ogni fratello» (Colletta). Il tema della carità fraterna domina tutte le letture e, sorprendentemente, si impone non solo come un aiuto offerto agli altri, ma come un atteggiamento a noi indispensabile, affinché la nostra vita sia davvero libera e salva dal male. 

Vincolarsi
San Paolo esordisce con una notizia assai consolante. Nel pieno di una prolungata crisi economica, appesantiti da molte incombenze e scadenze, scopriamo che, in realtà, noi tutti «non siamo debitori di nulla a nessuno» (Rm 13,8). Mentre viviamo costantemente con l’impressione che tutto — anche le cose più sacre e belle — ha un prezzo, che una lunga fila di aspettative ci attenda non appena iniziamo un nuovo giorno, l’apostolo taglia corto e afferma che, essendo ormai figli di Dio, in realtà non abbiamo alcun debito, se non quello di riconoscere l’altro come qualcuno d’amare, «un fratello per il quale Cristo è morto» (1Cor 8,11). La lista dei debiti, a causa del vangelo, si riduce così a un solo vincolo, quello «dell’amore vicendevole» (Rm 13,8). Questa è l’unica cosa che Dio non può e non vuole fare al nostro posto. Tutto il resto — i nostri limiti, i nostri vuoti, i nostri peccati — Dio è capace di condurli a «pienezza» (13,10) con la sua misericordia. Stiamo davvero vivendo questa libertà dell’unico vincolo? Oppure siamo scivolati ormai da tempo in un’esperienza di fede tutta concentrata sull’evitare il male: «Non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai» (13,9)? Stiamo provando davvero ad amare il prossimo come amiamo noi stessi? Nei rapporti che viviamo siamo capaci di vincolarci all’altro fino al punto da provare ad ammonirlo quando sbaglia? Il profeta Ezechiele e il Signore Gesù ci ricordano che la correzione fraterna non è un optional, ma un atto necessario alla verità dei rapporti che viviamo. Se non richiamiamo il fratello che sta agendo da «malvagio» (Ez 33,8), paradossalmente siamo noi a rischiare di non essere salvi. 

Senza incollarsi
Infatti, se da un lato la vita del fratello è costantemente affidata (anche) alla nostra vigilanza e a una attenta premura nei suoi confronti — come ci ricorda il profeta — dall’altro il vangelo ci insegna che il modo più autentico di volere il bene dell’altro si esprime nella capacità di rispettare fino in fondo la sua alterità e la sua libertà. Fino ad assumere serenamente il rischio che il nostro amore resti senza frutto e senza accoglienza. Certo, una frettolosa lettura dell’insegnamento di Gesù, potrebbe sembrare l’autorizzazione ad attivare un graduale allontanamento delle mele marce all’interno della comunità. Primo cartellino giallo, secondo cartellino giallo, infine cartellino rosso ed espulsione! In realtà il significato di questo vangelo va cercato in ben altra direzione. Nei confronti del fratello che commette «una colpa» siamo, prima personalmente e poi comunitariamente, chiamati ad avere uno sguardo di crescente disponibilità e attenzione, a partire dalla consapevolezza che stiamo perdendo un «fratello» (Mt 18,15). Ma — e questa sembra essere la cosa più rilevante — se non dovessimo riuscire a (ri)guadagnarlo, non dobbiamo né giudicarci, né giudicarlo: «Sia per te come il pagano e il pubblicano» (18,17). Non si tratta certo di un’esortazione ad avere sentimenti di amore a “tempo determinato” nei confronti degli altri. Al contrario, questo vangelo ci incoraggia a saper trasformare in attesa fiduciosa ogni operazione di conquista per amore. A rimanere in un atteggiamento di tenace speranza, quando il raccolto non pare corrispondere ai tempi e alle misure della nostra semina. 
Legare e sciogliere
Ezechiele direbbe che, dopo aver amato, non dobbiamo temere di restare nell’oscurità come una «sentinella» (Ez 33,7), il cui principale compito consiste nel vegliare e scrutare l’orizzonte, ben sapendo di essere in tal modo esposta al grave rischio di essere la prima persona a poter subire l’invasione del nemico. Accettare la sorte del fratello significa accettare la sorte della sentinella, che è la prima a poter soccombere, ma anche la prima a poter fare qualcosa per cambiare la realtà delle cose. Infatti l’amore non conduce mai a posizioni passive, anche se apparentemente statiche. Il finale del vangelo ci svela quale importantissima missione è consegnata nelle mani di ogni comunità e di ogni discepolo di Cristo: «Tutto quello che legherete sulla terra sarà legato in cielo, e tutto quello che scioglierete sulla terra sarà sciolto in cielo» (Mt 18,18). Prima, e ben al di là, di qualsiasi interpretazione giuridica, il Signore qui allude alla grande responsabilità affidata a chi ha conosciuto l’amore del Padre di dover dare forma, già in questo mondo, ai rapporti che saranno un giorno nell’eternità del cielo. I cristiani devono avvertire una particolare responsabilità nei confronti del compito di sciogliere tutti i legami di chi è ancora oppresso dalla schiavitù del male e del peccato e, soprattutto, della missione di rimanere discretamente legati e protesi a quei fratelli che non riescono ancora ad accogliere la misericordia di Dio. Sicuri che «la carità» non può fare «alcun male al prossimo» (Rm 13,10). Lo può semmai ricevere, come è accaduto a Gesù, nostro Signore e Maestro. La liturgia di questa domenica non autorizza nessuna esclusione, ma incoraggia ogni cammino di inclusione del quale siamo disposti a pagare in prima persona le conseguenze. Ben sapendo che quel fratello che il cielo non si stanca di guadagnare ogni giorno — e di farlo a caro prezzo — siamo anzitutto noi. Poveri, miseri, infinitamente amati.

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