BISOGNAVA

III Domenica di Pasqua – Anno A
Siamo pellegrini in questo mondo, viviamo «quaggiù come stranieri» (1Pt 1,17) scrive san Pietro, ai primi cristiani. Se ci dimentichiamo che la destinazione del viaggio è il «Padre colui che, senza fare preferenza, giudica ciascuno» (1,17) tutto diventa enormemente difficile e insostenibile. Felicità e salute, solo a intermittenza, ci fanno compagnia. Come pellegrini stanchi e scoraggiati, camminiamo spesso in sentieri di morte, come quei due discepoli senza nome che il giorno di Pasqua se ne andavano «col volto triste» (Lc 24,17) e il cuore pieno di delusione. Proprio nel bel mezzo di quei passi incontrano il Risorto, e scoprono che la Pasqua è una forza che permette di cambiare il senso di marcia, che converte ogni fuga in ritorno, ogni paura in coraggio. 

Pellegrino
Il Signore Gesù, ormai liberato «dai dolori della morte» (At 2,24), si avvicina ai due scoraggiati viandanti e «camminava con loro» (24,15). In questo modo il Risorto inizia a stabilire un contatto con noi dopo la sua Pasqua: mettendo la sua nuova vita con estrema attenzione e delicatezza accanto alla nostra, adeguando la velocità della sua gioia alla lentezza dei nostri passi tristi. I due discepoli non si accorgono che Gesù è accanto a loro, «i loro occhi erano impediti a riconoscerlo» (24,16) perché i loro cuori erano «sconvolti» (24,22) dalla paura e dal dolore. Cammina con noi il Risorto; fa la nostra strada. Senza giudizi né rimproveri, anzi cercando accoglienza nei nostri sentieri interrotti. Non comanda, non esige; si interessa a noi: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?» (24,17). Uno dei due, Clèopa, butta fuori il rospo: «Solo tu sei forestiero a Geruselemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?» (24,18). Quante volte, chiusi nel nostro dolore, ci ostiniamo a leggere la storia con il piccolo filtro dei nostri occhi offuscati! Non sappiamo guardare al di là del nostro sconforto, ignorando quanto il mistero della sofferenza sia partecipato da tutti. Soprattutto da Dio. Sono passate appena quarantott’ore dalla sua terribile passione e il Signore Gesù risponde con una domanda sconcertante: «Che cosa?» (24,19). Davvero Dio non si ricorda «del male ricevuto», non ne «tiene conto» (1Cor 13,5), perché è amore e perdono. 

Notizie
Davanti a questo cortese interessamento, i due discepoli trovano l’occasione di sfogarsi. La loro cronaca è perfetta, completa, dettagliata. Ma è un necrologio senza speranza: «Noi speravamo...» (24,21). Sono così anche tanti nostri discorsi, tante parole che facciamo o che diciamo per cercare di interpretare la realtà: una cronaca senza vangelo, una cattiva notizia, molto simile a quelle con cui amiamo riempire le pagine dei giornali e i rotocalchi televisivi. Gesù ascolta, con pazienza e amore, perché il dolore non se ne va finché qualcuno non lo prende con sé. Poi però impedisce ai discepoli di rimanervi attaccati, con un deciso rimprovero: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?» (24,26). È difficile strappare via il dolore dal cuore di un altro. Ci sono depressioni e sofferenze talmente radicate nel nostro corpo e nella nostra mente, che a volte cercare di rimuoverle è come tentare di sradicare un albero con due mani. Scelte sbagliate, male ricevuto, incidenti accaduti, occasioni mancate: in infiniti modi la delusione entra nel nostro cuore e lo svuota di speranza. Gesù però ha una speciale autorità in questo ambito, perché ha sofferto per amore. Davanti all’odio e alla violenza non ha scelto la fuga ma ha offerto la vita. La sua voce è ormai libera di spiegare la parola della croce, di annunciare che la croce è già buona notizia, che amare fino a perdersi non è il limite ultimo, ma la definitiva occasione di incontrare una grazia che «vale più della vita» (Sal 62,4). Il Signore prende in mano le Scritture e spiega che sin da principio esse si riferivano «a lui» (Lc 24,27), che «bisognava» (24,26) che le cose andassero così, che era necessario per noi e per lui. Era necessario perché il male c’è nel mondo e rimane finché qualcuno non lo toglie. Era necessario perché anche il bene c’è, ed è più forte del male, lo sconfigge. Bisognava che noi sapessimo che Dio è disposto a fare pazzie per noi, fino a offrire non «cose effimere, come argento e oro» (1Pt 1,18), ma il «sangue prezioso di Cristo» (1,19), il suo unico e amato Figlio.

Ritorni
Mentre Gesù dice queste cose, il cuore dei discepoli arde di speranza. Allora lo pregano di non andare via: «Resta con noi» (Lc 24,29). Così accade ogni volta che celebriamo l’eucaristia: prima la Parola riaccende in noi la fede, poi la frazione del Pane pone anche i nostri occhi in comunione col Signore risorto: «Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero» (24,31). A questo punto il Risorto scompare, lasciando il cuore dei discepoli colo di un’inattesa speranza. È tutto ciò che serve per risorgere e ritornare alla vita come «testimoni» (At 2,32), talmente contenti e convinti da poter guardare ogni situazione e ogni persona con speranza. Sapendo che la realtà non si interpreta con i nostri poveri occhi, ma «secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio» (2,23). Che quanto accade — a noi e agli altri — non si spiega mai a partire da noi stessi, ma sempre e solo a partire dalle meraviglie che il Signore ha sognato e compito per noi. Anche noi come i due discepoli di Èmmaus possiamo smettere di fuggire e imparare a «conoscere le vie della vita» (2,28). Proprio là dove sembrava non esserci più né gioia né futuro ci possiamo infatti essere noi, che attraverso la comunione col Signore risorto, diventiamo pane di amicizia e vino di fraternità per ogni fratello con cui condividiamo i giorni del nostro pellegrinaggio.

Commenti