NON PERDERSI (D'ANIMO)

Martedì – IV settimana del Tempo Ordinario
Due donne, due vite, due storie. Due racconti sapientemente intrecciati, nella liturgia di oggi, ci mostrano cosa è la fede e quale dono è accordato a questo misterioso azzardo di cui è capace il cuore umano quando, spogliato e ridimensionato, si apre alla scoperta di una vita più grande, lasciandosi incontrare dalla salvifica presenza di Dio. La prima è una donna adulta, che da dodici anni — da sempre — perde sangue — la vita — e pur avendo speso tutti i suoi averi per cercare cure, si ritrova ancora cucito addoso questo male incurabile.

Avendo udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello.
Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata» (Mc 4,27-28)

Il tocco la guarisce, ma per il Signore Gesù non è sufficiente. Avvertendo il desiderio di salvezza di questa sconosciuta, la cerca con intensità di cuore e di sguardo e finalmente la trova in mezzo alla folla, sconvolta ed emozionata.  

E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti
e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata.
Va’ in pace e sii guarita dal tuo male» (4,33-34)

Prima era solo guarita, ora è pure salva. Perché salvi lo siamo quando incontriamo qualcuno davanti al quale possiamo essere finalmente e pienamente noi stessi, in tutta la nostra verità, in quello che di noi abbiamo capito e in quello che di noi resta ancora tenebra in attesa di luce. Quel luogo, per esempio, dove si trova la figlia di Giàiro, il capo della sinagoga, di cui il Signore Gesù si fa premuroso discepolo.

Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!».
E subito la fanciulla si alzò e camminava» (4,41-42) 

La vicenda di queste due donne rimesse in piedi dalla misericordia del Signore Gesù ci mostrano come la fede possa realmente introdurci in una comunione di vita piena e di risurrezione dai nostri fallimenti. Si tratta di non perdersi d’animo, finché non abbiamo ancora resistito fino alla fine nelle lotte che, personalmente, siamo chiamati ad affrontare. Senza mai considerare niente e nessuno perduto, nemmeno quando è nemico della nostra vita. Come accade a Davide, incapace di vedere in Assalonne — figlio ribelle e usurpatore — nient’altro che un figlio perduto, per il quale versare le lacrime del cuore. 

Allora il re fu scosso da un tremito, salì al piano di sopra della porta e pianse; 
diceva andandosene: «Figlio mio Assalonne! Figlio mio, figlio mio Assalonne! 
Fossi morto io invece di te, Assalonne, figlio mio, figlio mio!» (2Sam 19,1)

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