NON CI SONO TENEBRE

Ss. Innocenti
La celebrazione del Natale prosegue, senza apparente linearità, con il ricordo dei santi Innocenti, tutti quei «bambini che stavano a Betlemme e in tutto il suo territorio e che avevano da due anni un giù» (Mt 2,16) nel tempo in cui il Figlio di Dio è venuto al mondo. Sebbene il numero di queste vittime innocenti vada immaginato certamente esiguo rispetto a molti altri massacri che la storia ha fatto sfilare davanti ai nostri occhi, ciò nondimeno solleva in noi un grave turbamento pensare che tale eccidio rappresenti una delle prime conseguenze del Natale del Signore. Addirittura inquietante è il fatto che la chiesa lo celebri come una festa, affermando che «nei santi Innocenti» Dio è «stato glorificato non a parole, ma con il sangue» (cf. colletta). Certo, nella vita spezzata di questi bambini, che non sanno di morire a causa di Cristo, possiamo vedere rappresentato, e in certo modo riscattato, il sangue di tutti i giusti da Abele a Zaccaria (cf. Lc 11,51), dal più noto fino al più sconosciuto innocente di ogni sterminio perpetrato lungo i secoli. Possiamo persino cogliervi la più limpida prefigurazione del sacrificio di Cristo, il Figlio innocente che è morto «una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti» (1Pt 3,18), per ricondurre a Dio l’umanità intera. Ma la chiave di accesso più adeguata alla festa di oggi è offerta proprio dalla riflessione dell’apostolo Giovanni, che trasforma il «grido» (Mt 2,18) del nostro disappunto in uno sguardo sincero dentro il mistero del nostro cuore. 

«Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. 
Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto 
da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. 
Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo 
e la sua parola non è in noi» (1Gv 8,8-10) 


Nell’atmosfera drammatica di questa festa liturgica, siamo invitati a percorrere quella distanza — mai breve — che separa ciò che noi diciamo di essere da ciò che in realtà siamo, fino a scorgere e accettare la presenza di una forte ambiguità in noi, che si manifesta soprattutto quando veniamo spodestati dal trono delle nostre sicurezze e dei nostri poteri. Il furore di Erode, che non tollera che ci si prenda «gioco di lui» (Mt 2,16) e avverte come un incubo la venuta di un messia, non ha alcuna giustificazione. Tuttavia nemmeno le «tenebre» (1Gv 1,5) che abitano in noi e nelle quali spesso camminiamo possono essere facilmente motivate o comprese. Sappiamo soltanto che «Dio è luce e in lui non ci sono tenebre» (1,5) e che «abbiamo un Paràclito presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto» (2,1). Questa coscienza attenua l’orrore suscitato dal ricordo del sangue innocente, diventa speranza «per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (2,2).

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