SOGGETTI DI PASSIONE

Mercoledì – XXXIV settimana del Tempo Ordinario
Se è vero che non dobbiamo temere il giudizio — perché è premessa e promessa di ogni trasformazione — è altrettanto vero che, nel momento della persecuzione a causa dell’aver creduto in Gesù Signore, possiamo imparare a non ascoltare il giudizio negativo che la storia ci assegna. Le immagini con cui i discepoli sono preparati ad affrontare le estreme conseguenze del vangelo appaiono decisamente dure. Non tanto quelle che annunciano la consegna e la testimonianza davanti a re e governatori, ma quelle che descrivono il martirio all’interno delle relazioni più familiari.

«Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici,
e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome» (Lc 21,16-17)

Non è ovviamente intenzione del Maestro incutere paura o, addirittura, terrore nei discepoli, quanto piuttosto proporre loro in anticipo la mitezza come atteggiamento da abbracciare soprattutto nei momenti in cui la tentazione sarebbe — e sarà — quella di impugnare qualche arma per rispondere al fuoco con altro fuoco o, quanto meno, per garantirsi una legittima difesa. La posta in gioco è molto alta, perché proprio quando siamo oggetti di odio — soprattutto da parte dei fratelli — possiamo diventare soggetti di passione.  

«Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto.
Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» (21,18-19) 

Perseverare non significa semplicemente stringere i denti e attendere che sia passata l’ora dell’angoscia e del dolore. Spesso il momento del martirio è la (sola) occasione per accettare che i nostri tratti più deboli vengano pienamente alla luce, che gli altri li vedano e possano addirittura approfittarne. Così ha fatto il Signore Gesù nella sua passione: ha permesso che le nostre mani e i nostri giudizi facessero di lui quello che (non) volevamo. Se qualcosa dobbiamo seriamente temere non sono dunque i momenti in cui la nostra vita si tinge di rosso, ma quelli in cui viviamo superficialmente, incuranti del fatto che le cose — anche quelle più ordinarie come il bere e il mangiare — possono essere luogo di relazione con il Dio invisibile. Oppure no.

«Ti sei innalzato contro il Signore del cielo e sono stati portati davanti a te i vasi del suo tempio 
e in essi avete bevuto tu, i tuoi dignitari, le tue mogli, le tue concubine:
tu hai reso lode agli dèi d’argento, d’oro, di bronzo, di ferro, di legno, di pietra,
i quali non vedono, non odono e non comprendono, e non hai glorificato Dio,
nelle cui mani è la tua vita e a cui appartengono tutte le tue vie» (Dn 5,23)

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