INSISTENTI

XXIX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Senza alcuna pretesa di diventare grande. Solo colma di quella gratitudine che salva la vita: così la fede ha bisogno di essere, assicuravano le parole del vangelo, in queste domeniche. Resta però un problema, tutto racchiuso in una sferzante domanda di Gesù, posta al termine dell’odierna liturgia domenicale: «Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,8). Il rischio più grande che corre un discepolo non è sbagliare, ma smettere di credere. Vale allora la pena di fermarsi un attimo e verificare se la fede che pensiamo di avere abita ancora dalle nostre parti. By the way, dove abita la fede di una persona?

Nell’insistenza
Il primo luogo dove rintracciare la presenza della fede in Dio — sembra dirci il vangelo — è l’insistenza, soprattutto nella pratica della «preghiera» (18,1). La «parabola» (18,1) della «vedova» che tampina fino alla nausea «un giudice» abietto, «che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno» (18,2.4) è abbastanza eloquente. Proprio a causa della sua petulanza, questa donna rimasta senza marito riesce a convincere il giudice a soddisfare la sua richiesta: «Dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi» (18,5). Ma cosa ha reso questa vedova tanto pervicace nella sua richiesta? Il vangelo ci permette di rispondere alla domanda. La vedova era cosciente di avere un «avversario» da combattere, così come il diritto a ricevere una «giustizia» (18,3). Da questa scomoda, ma lucida consapevolezza deriva tutta la forza della sua tenacia. Il Signore Gesù applica l’immagine di questa parabola alla realtà della preghiera, per dire «ai suoi discepoli» che è necessario «pregare sempre, senza stancarsi mai» (18,1). 
Nel combattimento
Forse a volte perdiamo coscienza del fatto che il respiro del nostro essere cristiani — la preghiera — non può che essere anche combattimento contro un «avversario» o, meglio ancora, contro un mare di avversità che sperimentiamo attorno e, soprattutto, dentro di noi. Anche perché pregare non significa soltanto rimanere, a parole o in silenzio, «davanti a Dio» (2Tm 4,1). Pregare vuol dire pure assumere con responsabilità il peso della realtà in cui la nostra vita si gioca insieme a quella degli altri. In parole più semplici e tecniche: la preghiera non può che essere anche intercessione per i fratelli. L’immagine offerta dalla prima lettura è suggestiva: «Quando Mosè alzava le mani, Israele prevaleva; ma quando le lasciava cadere, prevaleva Amalek» (Es 17,11). Mentre Israele combatte contro il temibile esercito degli Amaleciti, Mosè sfida la fatica e la stanchezza per rimanere con le mani alzate verso i cielo «fino al tramonto del sole» (17,12) a implorare il sostegno di Dio, che risponde facendo «giustizia ai suoi eletti» (Lc 18,7): «Giosuè sconfisse Amalèk e il suo popolo, passandoli poi a fil di spada» (Es 17,13). La preghiera diventa presto o tardi combattimento perché esistono innumerevoli ostacoli nelle circostanze in cui viviamo la nostra avventura di uomini e donne: nel matrimonio, nella solitudine, nella vita religiosa, nel presbiterato, nell’impegno sociale, politico, economico, nel lavoro e nello svago. E i nemici veri non sono mai le cose o le persone che non corrispondono alle nostre aspettative e alle nostre mentalità, ma quella parte di cuore che è egoismo e diventa anche cultura, legge, pubblicità e moda. La fede si gioca anche qui, in un atteggiamento combattivo che si esprime nel non rassegnarsi mai a una vita mediocre, a una società ingiusta, a un’economia non solidale.

Nell’attesa
Ma il segreto della vedova sta altrove, precisamente nella sua ostinata convinzione di avere diritto a ricevere una giustizia. Nella semantica ebraica, la giustizia non è tanto il frutto di un’operazione forense, che cerca di assicurare a ciascuno il suo diritto lasciando però una grande sperequazione nella realtà. La giustizia biblica è salvezza di vita, pienezza, felicità. Più che un sostantivo è un avverbio, che il Signore garantisce a tutte le sue creature, cominciando da quelle più deboli e indifese: il povero, la vedova e lo straniero. La nostra fede riesce a non arrendersi di fronte alla fatica e alla contraddizione solo quando è accompagnata dalla coscienza che noi siamo sempre “meritevoli” di una giustizia da parte di Dio. Di non poter vivere una una vita che sia meno di ciò che ci corrisponde, perché continuamente chiamati a cose belle, alte, nobili. Avere intuizione della grandezza a cui siamo destinati e, al contempo, dei numerosi nemici che quotidianamente ostacolano questo cammino è l’illuminazione interiore che trasforma la nostra fede in una preghiera umile, faticosa e incessante. 
Oggi a tutti — specialmente ai giovani — fa paura il “per sempre”. Agevolati da innumerevoli comfort e tecnologie sempre più sorprendenti, siamo paradossalmente più stanchi e agitati di tutte le generazioni che ci hanno preceduto. Fatichiamo a scegliere e, poi, a rimanere dentro lo scelte compiute, accettandone tutte le conseguenze. Per riappropriarci di una vita che accoglie la sfida della perseveranza e della definitività, non serve un atto di forza, ma  una migliore accettazione dei limiti contro cui regolarmente rimbalziamo. Ascoltati con amore e attenzione, alla luce della parola di Dio, i nostri limiti ci ricordano che il viaggio è davvero infinito, e che combattere non è altro che il segno della libertà che ci è stata regalata. Da quel Dio che non ci farà «aspettare a lungo» (Lc 18,7), ma sia nel «momento opportuno» sia in quello «non opportuno» (2Tm 4,2) non si stanca di condurci verso «il suo regno» (4,1) per offrirci gratuitamente il suo amore, «la salvezza, che si ottiene mediante la fede in Gesù Cristo» (3,15).

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