CONFIDENZA

XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno C
Le Scritture, anche questa domenica, tornano a parlarci della preghiera, indicandoci due atteggiamenti con cui è possibile stare davanti a Dio. La parabola raccontata da Gesù — tra le più note di tutto il vangelo — non va (fra)intesa come un racconto che vuole distinguere tra buoni e cattivi, rappresentati rispettivamente dal pubblicano e dal fariseo. Non appartiene alla predicazione del Maestro questa indole moralistica, inoltre noi saremmo inclini a collocarci, molto umilmente, dalla parte dei buoni. La parabola vuole piuttosto entrare in dialogo con la nostra ricorrente e «intima presunzione di essere giusti», che ci porta a disprezzare «gli altri» (Lc 18,9), riscattando la dignità e la speranza del povero che è in noi. Il solo capace di restare in «confidenza» (colletta) con Dio. 

Il fariseo
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé» (18,10). Subito, in colui che dovrebbe essere più predisposto a una preghiera autentica, emergono alcune ombre. Certo, il fariseo sta in piedi,  una posizione di lode e di rispetto verso Dio, tuttavia — spiega Gesù — la sua vita spirituale sembra segnata da un certo auto-compiacimento, al punto che la sua preghiera è solo formalmente una relazione, perché in realtà quest’uomo «pregava così tra sé». Non ci sono errori nel suo esame di coscienza, c’è persino gratitudine: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo» (18,11-12). Eppure questo modo di pregare, pur aspirando ad arrivare «fino alle nubi» (Sir 35,20), non sembra capace di attraversarle. Perché quest’uomo sta cercando di alzarsi sulle punte dei piedi, davanti a Dio e rispetto agli uomini, condannandosi a quella solitudine che è amaro destino di ogni narcisismo. Molto diversa la speranza di un altro fariseo, Paolo, che confida al fratello Timoteo la sua intima speranza: «Ora mi resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, mi consegnerà in quel giorno; non solo a me, ma anche a tutti coloro che hanno atteso con amore la sua manifestazione» (2Tm 4,8). Paolo ha ormai imparato a guardare senza disprezzo, né giudizio i peccatori, riconoscendosi solidale con loro. È un fariseo che ha capito di non essere — e di non dover essere — diverso da un pubblicano.
Il pubblicano
«O Dio, abbi pietà di me peccatore»: così, «a distanza», senza nemmeno osare «alzare occhi al cielo», battendosi il «petto» (Lc 18,13), pregava invece il pubblicano. Non spreca nemmeno il tempo a elencare i suoi difetti e i suoi sbagli, ma «si umilia» (18,14) davanti a quel Dio in cui ripone ogni speranza: «Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà salvo nei cieli, nel suo regno» (2Tm 4,18). Quest’uomo — peccatore pubblico a causa del suo sporco lavoro — ha compreso che il «Signore» è un «giudice» misericordioso, e «per lui non c’è preferenza di persone» (Sir 35,15), ma «ascolta la preghiera dell’oppresso» (35,16), quando questi «si sfoga nel lamento» (35,17). Non potendosi né ritenere, né manifestare giusto, il pubblicano non ha nemmeno l’occasione per mettersi a denigrare gli altri. Infatti la sua preghiera non lo pone in confronto con nessuno, è solo una sincera e compunta percezione di se stesso che «attraversa le nubi» e non «si quieta finché non sia arrivata» (Sir 35,21) al cospetto dell’Altissimo, il Dio che ha pietà di tutti i suoi figli.
Chiunque

Il Maestro conclude la parabola con un’asciutta sentenza: «Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (Lc 18,14). Il pubblicano torna a casa fatto-giusto da Dio, mentre il fariseo pieno soltanto della sua sterile vanità. La sua presunzione di considerarsi bravo e a posto gli impedisce di incontrarsi con il volto del vero Dio, il quale sempre ci rende giusti proclamando il nostro irriducibile valore di fronte al suo sguardo. Quest’uomo cerca di esaltarsi perché, probabilmente, ha smarrito il contatto con la sua povertà interiore. A forza di indossare maschere e di identificarsi troppo con il ruolo assunto, il pubblicano è diventato ipocrita, caricatura di se stesso, sepolcro imbiancato non più capace di quel sano realismo che è il principio di ogni confidenza con l’altro. Quando anche a noi accade questo, scivoliamo velocemente nel gossip, abitudine velenosa di guardare la vita altrui mai scevra da invidia o disprezzo, anche quando ci sembra di viverla nelle forme innocue della chiacchiera e del pettegolezzo. Molto meglio usare il tempo per cercare di riconciliarci con i nostri limiti, attraverso la presenza clemente e buona di Dio, che sempre nella preghiera ci ascolta e ci guarda con paziente amore. In fondo è sempre dalla presunzione di essere dalla parte del giusto che nasce ogni giudizio e ogni violenza che quotidianamente siamo capaci di emettere. La consapevolezza di non essere ancora giusti — e tuttavia di essere resi tali da un Dio con non smette mai di vederci suoi figli — è invece il principio della salvezza, il segreto della preghiera povera, che tiene viva «la fede» (2Tm 4,7) e custodisce la più bella speranza nel cuore: «Il Signore mi libererà da ogni male e mi porterà in salvo nei cieli, nel suo regno; a lui la gloria nei secoli dei secoli» (4,18).

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