NULLA È PERDUTO

XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Se domenica scorsa abbiamo ascoltato senza distrazioni — e senza attenuazioni — la ruvida parola del vangelo, dovremmo aver sperimentato perlomeno un certo disagio. Ma chi ce la fa a rinunciare a tutto? Chi può essere discepolo di Cristo? Nessuno, ci viene da rispondere. Oggi le Scritture modificano l’orientamento del nostro sguardo, svelandoci il volto di un Dio che compie per primo quel passo di conversione indispensabile a una vita piena. Un Dio che non ha pace finché non ha incontrato e salvato tutta la nostra esistenza. 

Pentimenti
C’è però un problema di fondo. Anche se è difficile ammetterlo — forse troppo audace confessarlo — noi abbiamo la percezione di essere un po’ più morbidi di Dio, il cui modo di agire — o spesso di non agire — ci appare talvolta duro e dispettoso. È quanto la prima lettura dell’Esodo in qualche modo lascia pensare. Di fronte al peccato di idolatria del «vitello di metallo fuso» (Es 32,8), si accende l’ira di Dio che medita di divorare tutto il popolo. Allora il fedele e pietoso Mosè si mette a supplicare il Signore cercando di fargli cambiare idea: «Perché, Signore, si accenderà la tua ira contro il tuo popolo, che hai fatto uscire dalla terra d’Egitto con grande forza e con mano potente?» (32,11). Il finale è lieto. Dice la Scrittura che «il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo» (32,14). Siamo davanti al racconto di un Dio che si pente? Oppure di un uomo — Mosè — e di un popolo — Israele – che arrivano a scoprire quanto Dio sia lento all’ira e ricco di misericordia.

Fiducia
Non diverso è quanto emerge dalla seconda lettura, dove ascoltiamo l’esperienza di Paolo che, attraverso un sofferto percorso, giunge ad imbattersi in un Dio che usa volentieri «misericordia» (1Tm 1,13) con le sue creature, poiché giudica l’uomo «degno di fiducia» (1,12) anche quando questi è «un bestemmiatore, un persecutore e un violento» (1,13). Questo è il vangelo che da duemila anni la chiesa ripete con gioia e fierezza. La vita di innumerevoli discepoli e santi ce ne dà testimonianza, ricordandoci che viviamo tutti sotto un cielo paziente, al cospetto di un Dio pieno di «magnanimità» che desidera regalarci «la vita eterna» (1,16). Eppure, quanta fatica a crederlo, a lasciarci andare. 
Eccoci
Il vangelo di questa domenica approndisce il mistero. Non tanto la splendida e celebre parabola del cosiddetto “figliol prodigo”, quanto le due minori che la introducono: quella della pecora smarrita e della moneta perduta. Gesù si sta rivolgendo a quei «farisei e scribi» (Lc 15,2), che si scandalizzano del suo essere circondato da peccatori pubblici. Le storie sono abbastanza note: un uomo si accorge che nel suo gregge manca una pecora, allora «lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova» (15,4); una donna, non vedendo una delle sue dieci monete all’appello, in piena notte «accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova» (15,8). Entrambi, non appena hanno trovato la cosa perduta, tornano a casa, chiamano gli amici e fanno festa. Pieni di gioia. La domanda sorge spontanea: perché quest’uomo e questa donna si mettono a cercare con tanta passione quello che hanno perduto? Semplice: perché sanno che, da qualche parte, questa cosa c’è ancora!
Perché Dio ci cerca? Perché il suo amore nei nostri confronti è così fedele e ostinato? Perché sa che noi ci siamo. Perché guarda con clemenza e fiducia tutto ciò che in noi è perduto. È uno sguardo davvero diverso da quello che noi solitamente abbiamo, su noi e sugli altri. Noi vediamo la realtà sempre sotto una luce negativa e ne proviamo disprezzo. Il Signore invece non si stanca mai di vedere il nostro bicchiere mezzo pieno, scorgendo in noi le potenzialità sopite o mortificate, che attendono riscatto. Dio sa — poiché siamo suoi figli — che una persona che ha sbagliato non è una persona sbagliata. È persuaso che proprio chi ha toccato il fondo è in grado di fare un salto di qualità nella sua vita e compiere meravigliose trasformazioni del suo modo di essere. Come dice san Paolo: «Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (1Tm 1,15-16). Noi ci guardiamo e ci valutiamo a partire dalla nostra rassegnazione, ma Dio questo sguardo non riesce proprio ad averlo, perché è convinto che in noi resta sempre qualcosa capace di corrispondere a lui. Al di là di ogni peccato e di ogni ambiguità, egli crede fermamente che ogni persona, ogni cosa, ogni situazione merita di essere cercata e salvata. Perché negargli la «gioia» (Lc 15,10) di trovarci ancora?

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