LA PORTA STRETTA

XXI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Non di rado le domande che poniamo contengono già le risposte e manifestano ricche tracce del pensiero che sta alla loro origine. Di questa stoffa sembra essere fatta la domanda che dà avvio al vangelo di questa domenica, con la quale «un tale» (Mt 13,23) interroga il Signore Gesù mentre insegna e cammina «verso Gerusalemme» (13,22): «Signore, sono pochi quelli che si salvano?» (13,23). Un interrogativo gigante, cruciale a cui il Maestro sceglie di non rispondere, spostando altrove lo sguardo. Non certo per sottrarsi da un difficile confronto, ma per coinvolgerci in una riflessione ancora più interessante. 

Curiosità
L’interrogativo dell’anonimo personaggio — che essendo senza nome, forse, ci vuole tutti rappresentare — suona subito sospetto. Perché in «pochi» dovrebbero salvarsi? Sin dai tempi più antichi, i profeti avevano annunciato una salvezza che Dio avrebbe esteso con estrema generosità, «a tutte le genti» e a «tutte le lingue» (Is 66,18). Persino dai popoli stranieri, il Signore avrebbe attinto i suoi ministri: «Anche tra loro mi prenderò sacerdoti levìti» (66,21), affinché la sua gloria fosse annunciata a tutti. Come mai questo tizio invece nutre il sospetto che nel regno di Dio ci potrebbero finire poche persone? Si tratta di un velenoso ragionamento che attraversa ciascuno di noi, e si materializza in tutti i moralismi con cui tracciamo confini tra buoni e cattivi, belli e brutti, giusti e ingiusti. Dentro di noi è sempre assillante il bisogno di stabilire un gruppo di persone riuscite e vincenti nel quale, naturalmente, vogliamo e dobbiamo far parte anche noi. Inoltre, molto spesso amiamo nasconderci dietro domande astratte e generiche, curiosità di fondo che assai raramente possono essere ispirate da Dio, il cui Spirito si muove sempre verso il coinvolgimento e non verso il sondaggio. 

Correzioni
Il Signore infatti non sembra gradire la direzione della domanda. Anzi, storce sempre il naso quando ci mettiamo a teorizzare troppo, discutendo sui massimi sistemi, anziché mantenere uno sguardo limpido e responsabile sulla nostra vita. Perciò dice: «Sforzatevi di entrare per la porta stretta, perché molti, io vi dico, cercheranno di entrare, ma non ci riusciranno» (Lc 13,24). Per spiegare questa immagine — molto concreta ma di fatto poco chiara — ricorre a una parabola, dove i discepoli vengono descritti come quei servi che il padrone non riconosce quando bussano alla sua porta: «Voi, non so di dove siete. Allontanatevi da me, voi tutti operatori di ingiustizia!» (13,27). Un registro duro e secco, con cui Gesù compie quel difficile atto d’amore che la Scrittura chiama correzione: «Il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio» (Eb 12,6). Talvolta Dio non ha davvero altre strade se non quella di una violenta percossa che può risvegliare il nostro animo intontito nei labirinti mentali in cui sprofondiamo, anziché affrontare il volto esigente della realtà. Attraverso la metafora di una porta stretta con cui fare i conti, il Maestro sembra dirci almeno un paio di cose. Anzitutto che è necessario rimanere su un piano personale, dichiarando che il problema della vita non si risolve attraverso teorie, ma mediante un’iniziazione seria e responsabile alla bellezza e alla sua complessità. In secondo luogo, trasferendo la piccola misura di salvezza che noi sospettiamo sulla dimensione della porta che siamo chiamati a varcare, il Signore vuole dirci che la vera paura da custodire non è quella di non essere salvati, ma di allontanarci da lui, pur praticando tutta una serie di atti che sembrano invece attestare un certo legame con lui.

Affermazioni

Perché il Signore ci rivolge parole che non sembrano «sul momento causa di gioia, ma di tristezza» (Eb 12,11)? Come mai di fronte alla paura di non salvarci, cioè di perderci nel difficile viaggio della vita, il Pastore buono ricorre a immagini e profezie che possono addirittura terrorizzare l’animo delle sue pecore: «Là ci sarà pianto e stridore di denti, quando vedrete Abramo, Isacco e Giacobbe e tutti i profeti nel regno di Dio, voi invece cacciati fuori» (Lc 13,28)? Forse perché solo con una strigliata chiara e forte, noi possiamo ricordarci che la vita non è un film a lieto fine scontato. Che la nostra libertà è davvero un dono grande, ma pure una drammatica responsabilità. Che non è vero che sia tutto uguale: fare il male o il bene, trasgredire od obbedire, praticare la giustizia oppure no. Solo con una parola di correzione che fa anche soffrire ci accorgiamo che le «mani» sono diventate «inerti», le «ginocchia fiacche» (Is 66,12) e «i piedi» (66,13) da tempo zoppicano. Ed è per questo — sì, anche per questo — che tutto ci sembra doloroso e deprimente: perché siamo rimasti privi della Buona Notizia; ci siamo dimenticati che vivere non significa salvarsi la pelle, ma essere capaci di sciupare la vita per amore, a partire dall’esperienza di sentirci amati, teneramente e fedelmente, da Dio. Non con i lustri e i parametri di una vita ben riuscita agli occhi degli altri. Non con la coerenza di chi si mantiene fedele e capace con le proprie forze. Ma con la semplice realtà di un vivere con «pace e giustizia» (Eb 12,11) alla luce di un amore capace di perdono, fino a diventare «un segno» (Is 66,19) discreto e convincente di quella vita nuova che Dio prepara per tutti gli uomini e le donne di buona volontà. Nel suo regno, dalle porte strette e dalle stanze accoglienti.


Commenti