SAPIENZA

Mercoledì - VII settimana del Tempo Ordinario


Al discepolo può talvolta sembrare di scorgere impedimenti nella realtà che lo circonda: situazioni o avvenimenti che ai suoi occhi non rendono il doveroso «culto a Dio» (Sir 4,15), né tantomeno possono dargli la «gloria» (4,14) che gli spetta. Non di rado questo giudizio negativo prende corpo e voce proprio nel gruppo a cui si appartiene, e viene presentato al Signore con estrema fierezza.

«Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, 
perché non ci seguiva» (Mc 9,38)

Ma la forma delle parole con cui Giovanni si rivolge a Gesù tradisce una certa ambiguità. Se da una lato sembra evidente la preoccupazione che il nome del Signore non venga manipolato o, peggio ancora, disonorato, dall’altro appare altrettanto chiaro che il motivo della condanna sia il fatto che non ci sia un vantaggio e un riconoscimento per il «noi» di cui ci si sente parte. In questa trappola noi discepoli cadiamo spesso. Pensando di tutelare l’immagine di Dio, siamo dispiaciuti del fatto che molte cose buone non seguano la scia dei nostri passi. E ci adiriamo nel constatare che altri, altrove riescono a fare — magari meglio — ciò che noi non riusciamo ancora a compiere, oppure — in fondo al cuore — temiamo di affrontare. Così ci rivolgiamo al Signore con imperativi solo apparenti, che dentro di noi risuonano già come la ricerca di una conferma che sentiamo di non avere. Piuttosto perentoria è infatti la replica di Gesù alla tronfia battuta del discepolo Giovanni.

«Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome 
e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,39-40)

Questo giudizio sulla realtà che il Signore Gesù riesce ad avere lascia intravvedere uno spirito assai diverso, per nulla preoccupato di conteggiare il proprio seguito o di avere il controllo su tutto e su tutti. Il Signore «ama la vita» (Sir 4,13) e «ama coloro che la amano» (4,15) e sa che «chi la possiede erediterà la gloria; dovunque vada» (4,14) sarà benedetto. Questo spirito buono, profondamente tollerante e inclusivo, è chiamato dalla Scrittura «sapienza» (4,13). Il discepolo non può mai presumere di possederla o di poterne disporre. Deve ricordarsi di cercarla «di buon mattino» (4,13), con umile e paziente fedeltà. E non dimenticarsi che la sapienza educa il discepolo con un’esigente pedagogia:

«dapprima lo condurrà per vie tortuose, lo scruterà attentamente, gli incuterà timore e paura, 
lo tormenterà con la sua disciplina, finché possa fidarsi di lui» (4,18-19)

Poi — soltanto dopo — «lo allieterà» (4,20) e il suo cuore sarà «ricolmo di gioia» (4,13), quell’allegria di chi ha imparato a vedere il bene anche, e soprattutto, fuori dall’orizzonte di sé e di ciò che conosce. Quell’allegria propria di chi cammina portando nel cuore una «grande pace» (Sal 118, 165).

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