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Mercoledì – IV settimana del Tempo di Pasqua

In questi giorni di Pasqua, la Parola di Dio ci ha ripetuto che il corpo santo e glorioso del Signore Gesù è un pane di vita da masticare con la bocca e da assimilare con il cuore, che ci fa rinascere a un’esistenza eterna. Nutrirsi di tale corpo significa vuol dire accogliere la vita come una chiamata al servizio e all’amore. Metafore adeguate a farci ri-contemplare la nostra responsabilità battesimale, cioè la nostra dignità di figli di Dio, che si esprime in una progressiva e libera assimilazione alla vita di Cristo, che in noi cresce mediante lo Spirito Santo. Il vangelo di oggi lascia però intuire una difficoltà in questo lungo cammino. 

«Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato;
chi vede me, vede colui che mi ha mandato» (Gv 12,44-45)

Nel compiere questa affermazione il Signore Gesù decide addirittura di gridare, quasi a voler mettere a tacere tutti i rumori di fondo del nostro cuore, cioè le paure e le menzogne che deformano il nostro sguardo sulla realtà. La sua parola chiarisce senza ambiguità che non dobbiamo fissare l’attenzione esclusivamente sulla sua persona, ma cogliere la sua relazione con il Padre, colui che lo ha inviato nel mondo. Contro la nostra tendenza ad assolutizzare le persone e i momenti, siamo invitati a restituire significato agli aspetti relativi — e relazionali — della realtà. Persino di quella di Dio. Perché è attraverso questi aspetti che appare, in filigrana, il mistero della vita eterna. 

«Io sono venuto nel mondo come luce, perché chiunque crede in me non rimanga nelle tenebre» (12,46)

La luce non si vede, eppure illumina ogni cosa; splende e le tenebre non riescono ad afferrarla. Essere luce è essere relazione, il bel frutto della Pasqua. Se davvero crediamo che la vita di Gesù sia stata meritevole di risurrezione, non possiamo che praticarla anche noi, amando a fidandoci di quel Dio che possiamo ormai chiamare Padre. È una faticosa maturazione, ma ne vale la pena: diventare capaci di relazione, non avere paura di donarci in tutto ciò che facciamo. Questo significa risorgere. Risollevare la nostra vita da quel modo di esistere autocentrato e autoreferenziale, gettandosi alle spalle la paura di fidarsi e affidarsi. Così hanno imparato a fare i primi discepoli del Risorto. I risultati erano sorprendenti: il Verbo di Dio dilatava la sua presenza nel mondo e nella storia. 

In quei giorni, la Parola di Dio cresceva e si diffondeva (At 12,24)

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