NON TIRARSI INDIETRO

XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Domenica scorsa ci siamo facilmente identificati nel sordomuto guarito dal Signore Gesù. Noi uomini del terzo millennio, così poco esperti nell’arte di ascoltare. Noi che le parole più vere le abbiamo ancora annodate in fondo all’anima. Ci ha raggiunto come una buona notizia la possibilità di essere sciolti dalle nostre difficoltà di comunicazione, di poter uscire dalla nostra solitudine. Ogni guarigione, d’altro canto, non è mai un avvenimento rapido e meccanico. Riaprire i canali di relazione significa accettare di conoscere e di farsi conoscere. Con il rischio che i nostri pensieri escano allo scoperto, manifestando la loro diversità con quelli di Dio, come ci racconta il vangelo di oggi.

Attenzioni
Il Maestro Gesù si trova ancora una volta in zone periferiche, lontano dai luoghi in cui il nome e la presenza del Dio di Israele si impongono con indiscutibile evidenza. I «villaggi intorno a Cesarèa di Filippo» (Mc 8,27) erano regione ambigua, disseminata di templi pagani. Proprio qui Gesù, mentre sta camminando con i «suoi discepoli», decide di interrogarli circa la sua identità: «La gente, chi dice che io sia?» (8,27). Un improvviso sondaggio, alla ricerca dei nomi e dei giudizi che si stanno costruendo attorno alla sua persona. «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti» (8,28); tutti pareri abbastanza allineati: alla gente il falegname di Nazaret pare proprio essere uno degli uomini inviati da Dio per parlare al suo popolo. Un profeta, appunto. Ma l’interesse di Gesù si volge altrove: «Voi, chi dite che io sia?» (8,29). Che bello un Maestro che ha voglia di sapere cosa c’è nel cuore dei suoi discepoli! Sufficientemente sicuro di sé da avere una precisa identità, ma nel contempo così attento al cuore degli altri da sentire il bisogno di verificare cosa gli altri vedono e pensano di lui. Avendo scelto di camminare con noi, il Dio che Gesù ci rivela osserva con cura il cammino di ciascuno. Non è schematico e impersonale. Parla, si lascia incontrare, attende. Poi, finalmente, interroga.  Ci chiede di aprire il cuore e di rivelare quali pensieri lo abitano. 

Rovesciamenti
Veloce e autentico, Pietro c’azzecca subito: «Tu sei il Cristo» (8,29). Chissà che momento speciale deve essere stato per i Dodici! Lo sguardo illuminato ed emozionato del pescatore Simone. Il sorriso di Gesù. I volti ammutoliti degli altri undici discepoli, che capiscono di essere dentro un momento di alta rivelazione. Eppure il Maestro interrompe subito la festa: «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (8,30). E si mette ad insegnare la parte più scomoda del vangelo: «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (8,31). Un «discorso» franco, diretto, che Gesù fa «apertamente» (8,32) ai suoi amici. Allora Pietro, forte dell’autorità appena conquistata con la sua illuminata risposta, fa una cosa davvero incredibile, prende «in disparte» il Maestro e «si mise a rimproverarlo» (8,32). Pietro inciampa subito in quella povertà di Dio che il Signore Gesù ha appena rivelato con le sue parole. La povertà dell’amore, che non si tira indietro di fronte al rifiuto. Pietro non ci pensa due volte a consigliare al Maestro una via diversa, che non vada incontro al rifiuto e alla morte. Gesù si gira verso i discepoli (silenziosi ma ugualmente ingannati) e rimprovera aspramente Pietro: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (8,33).  

Chiarimenti
L’esperienza vissuta da Pietro, che in pochi istanti passa dal ruolo di perfetto teologo a quello di indemoniato, ci rivela che dentro di noi esistono due modi di pensare. Uno viene dal maligno, ed è tanto diffuso da essere definito da Gesù un modo di pensare «secondo gli uomini» (8,33). L’altro viene da Dio e contiene qualcosa che suscita immediatamente il nostro rifiuto. Si tratta della croce, quella zona d’ombra che noi volentieri ignoriamo e tentiamo di rimuovere da ogni nostra valutazione. Ci fa paura programmare e analizzare la vita includendo ciò che accade quando non veniamo accolti, compresi, anzi perseguitati e rifiutati. Perché fa male ed è orribile. Eppure succede. E il motivo non è la negligenza di Dio, ma la durezza del cuore umano. Alla folla e ai discepoli, il Signore Gesù ripete coraggiosamente come stanno le cose: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (8,34-35). La croce non è il destino della nostra vita, ma un passaggio obbligato, ‘legge comune’ (Shakespeare) per chiunque voglia affrontare con verità l’avventura di essere uomini e donne. Infatti, la realtà porta con sé l’esperienza e il mistero del male come un indelebile tatuaggio, che tutti ci troviamo addosso. Eppure il nostro destino non è morire, ma risorgere. Perché la croce non viene a toglierci la vita, ma a offrirci l’occasione di donarla. Per questo essa non va cercata ma semplicemente accolta. Non come una parte scomoda e inutile che prima o poi passerà, ma come una delle preziose «opere» (Gc 2,14) che Dio ci chiede di compiere. Così si dà autentico ascolto alla parola di Dio, secondo l’esperienza del profeta che annuncia il cammino del Cristo: «Il Signore Dio mi ha aperto l’orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro» (Is 50,5). Fiduciosi che «il Signore Dio» resta «vicino» a noi e ci «assiste» (50,7-8), per condurre i nostri passi «nella terra dei viventi» (salmo responsoriale).

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