V Domenica - Tempo di Quaresima - Anno B


PIENO ABBANDONO


La quaresima è incominciata con un appello a considerare il tempo come un’ora favorevole, uno spazio di conversione, un’occasione di rinnovamento per la nostra vita. Giunti in prossimità della settimana santa, il tono delle Scritture si fa più personale. Il vangelo di questa quinta domenica annuncia che l’ora della salvezza non è né una fatalità, né una conquista, ma una scelta da fare nel (pro)fondo della nostra libertà, proprio quando  potremmo anche decidere di risparmiarci invece che perderci per amore. 

Momenti di gloria
Verso la fine della sua vita, il Rabbì di Nazaret era ormai diventato un personaggio conosciuto e ricercato. Al punto che persino alcuni Greci accostano i discepoli con forte curiosità di incontrarlo: «Signore, vogliamo vedere Gesù» (Gv 12,21). In prima battuta, la risposta del Maestro sembra molto umana e logica: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato» (12,23). Cioè: ‘Bene, è giunto il momento della gloria e del successo’. Ma, immediatamente diventa inattesa e sconcertante: «In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la propria vita, la perde e chi odia la propria vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna» (12,24-25). Quello che poteva essere un momento di affermazione personale viene interpretato dal Signore Gesù come l’occasione per fare della sua vita un regalo d’amore. Fuori tempo e fuori misura, la singolare replica di Gesù ai Greci che lo cercano, è in realtà un invito a entrare dentro noi stessi, là dove la nostra vita si svolge — e non può che svolgersi — nella logica del seme, chiamato a maturare nel tempo, e poi a morire nell’ora opportuna. La forza di un seme, la sua vitalità e la sua fecondità, non stanno in ciò che di esso si può osservare o misurare, ma nella sua capacità di rimanere offerto e nascosto dentro la terra, fino al momento in cui è pronto a germogliare.

Momenti di apprendimento
Non dobbiamo pensare che per l’umanità di Gesù questo modo di vivere sia stato un corredo divino, a cui facilmente poteva attingere, nella buona come nella cattiva sorte. L’autore della lettera agli Ebrei precisa che «Cristo, nei giorni della sua vita terrena, offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (Eb 5,7). Se il concetto non fosse sufficientemente chiaro, aggiunge: «Pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì» (5,8). Di certo queste parole sono facilmente riferibili al momento del Getsemani, quando il cuore di Gesù entra in una profonda lotta e in una sofferta preghiera. Ma possiamo immaginare che innumerevoli siano state nella sua vita le occasioni di apprendistato, dove la sua umanità ha dovuto imparare ad abbandonarsi alla fedeltà del Padre. Momenti in cui Gesù ha scelto di accogliere il piatto della realtà senza perdere né il sorriso, né la fiducia in Dio. Infatti l’espressione «pieno abbandono», usata dall’autore sacro, potrebbe essere meglio tradotta con «prendere bene». Gesù è diventato capace di interpretare la sua vita come un dono e un servizio d’amore, proprio per aver accettato di «prendere bene» tutti i momenti della sua avventura in questo mondo. Non come uno stoico o un titano. Né come un debole o un rassegnato. Ma come uno capace di attraversare ogni istante con la forza della preghiera filiale.   

Momenti di verità
Il vangelo ci rivela i contenuti di questa preghiera, raccontandoci i sentimenti di turbamento che Gesù sperimenta alla vigilia della sua passione: «Adesso l’anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salvami da quest’ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest’ora! Padre glorifica il tuo nome» (Gv 12,27-28). Di fronte al precipitare degli eventi in suo sfavore, il cuore di Gesù — allenatosi a essere il cuore di un figlio di Dio — decide liberamente di non chiedere aiuto «a Dio che poteva salvarlo da morte» (Eb 5,7), ma di accogliere quanto sta per succedere come un’occasione perché il nome santo e buono di Dio si manifesti attraverso la sua vita e la sua morte. Mentre l’ombra della passione si allunga sul suo viso, il Maestro non sceglie di salvarsi la pelle, ma di conservare se stesso per la vita eterna e di fare un regalo meraviglioso all’umanità, diventando «causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (5,8). 

Anche nella vita di ciascuno di noi giunge il momento serio, quello in cui non si possono più rimandare a domani le decisioni importanti, quelle che solo noi possiamo prendere. In quest’ora terribile, durante la quale le cose più belle e sacre della nostra vita rischiano di essere inghiottite nel nulla, ci è data l’opportunità di obbedire al Figlio, imparando a recitare la sua stessa preghiera ed entrando in «un’alleanza nuova» (Ger 31,31) con Dio. Anziché continuare a domandare al Padre di salvarci dalla realtà brutta e amara che ci è capitata, possiamo decidere di effondere la nostra vita come un profumo, spendendoci e regalandoci. Nei momenti difficili, siamo spesso tentati di barricarci dentro le gabbie delle nostre minuscole sicurezze, autentici luoghi di reclusione che col passare del tempo diventano pericolose camere a gas. La preghiera del «pieno abbandono» invece ci infonde il coraggio di aprire le porte del nostro bunker, per accogliere i momenti di passione come un’opportunità di donarci e amare fino in fondo. Si tratta di sollevare lo sguardo verso il cielo. Restituire al Padre le grida e le lacrime. Poi aprire la gabbia e spiccare il volo. Finalmente liberi. 


Così finisce la quaresima e inizia la Pasqua. 

Commenti