II Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

1Sam 3,3-10.19 / Sal 39 / 1Cor 6,13-15.17-20 / Gv 1,35-42

RI-CONOSCERSI


L’esperienza di Samuele, che si sente chiamare per nome dal Signore, e l’incontro di Simone con il Cristo, da cui riceve un altro nome – Pietro – rispetto a quello conosciuto sin dall’infanzia, prefigurano l’esperienza che l’ascolto delle Scritture celebrato nella fede promette di vivere: conoscersi e riconoscersi in ciò che si è e in ciò che si è chiamati a essere.

Chiamare
Accostando la prima lettura e il vangelo, possiamo subito rimanere sorpresi dalla modalità di questo riconoscimento, osservando come il Dio che sempre ci cerca è colui che desidera anche essere cercato, per poter essere finalmente trovato per ciò che egli è in verità: «il Messia» (Gv 1,41). Il vangelo, con questa insistente successione di nomi da ascoltare, scoprire e tradurre, sembra affermare che lo sviluppo della vita sia profondamente legato alla capacità di riconoscere e indicare cose e persone con il loro vero nome. Ne hanno fatto esperienza i discepoli di Giovanni, che diventano seguaci di Gesù sentendo parlare così bene di lui il loro maestro: «Ecco l’agnello di Dio» (1,36). Ma soprattutto Pietro che, condotto al cospetto del Signore Gesù, viene raggiunto da uno sguardo talmente profondo da spalancare la sua vita a inedite prospettive: «Tu sei Simone, il figlio di Giovanni; sarai chiamato Cefa – che significa Pietro» (1,42).


Chiamati
Pur conoscendo centimetro per centimetro il tessuto della nostra storia – chi siamo, da dove veniamo, quali paternità ci hanno generato – il Signore non dà mai per scontato ciò che siamo, come troppo spesso invece noi facciamo. La sua voce si avvicina a noi con rispettosa insistenza, pronunciando il nostro nome in modo nient’affatto schematico. È per questo che, il più delle volte, fatichiamo a capirla, pur sentendone l’inconfondibile suono che suscita la nostra risposta: «Mi hai chiamato, eccomi» (1Sam 3,5.6.8). Guardandoci a partire dall’amore che ha per noi, il Signore ci conosce assai meglio e più in profondità di quanto noi pensiamo di conoscerci. Nelle parole che Gesù rivolge a Pietro non c’è solo una modificazione formale ed esteriore, simile a quei quotidiani cambi di password e di etichette con cui siamo sempre tentati di manipolare il mondo senza mai di fatto cambiarlo. Mediante l’indicazione di un nome nuovo, Pietro riceve l’annuncio di un’esistenza allargata, uno spazio di libertà dove tutto l’ingombro dei suoi limiti è pienamente accolto e chiamato a diventare parte essenziale del disegno di Dio. L’intero sentiero della sua vita è ribaltato in avanti, non più condizionato dalle sue premesse, ma aperto a sconosciute finalità. Come l’apostolo insegna ai cristiani Corinto, precisando loro la grande dignità del corpo umano immerso nel mistero di Cristo, un corpo allo stesso tempo ricevuto gratuitamente e comprato a caro prezzo, donato e riconquistato: «Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo, che è in voi» (1Cor 6,19).

Audacia
Le Scritture, però, non dichiarano soltanto che lo sguardo del Signore è capace di conoscere e cambiare il nostro nome. Dicono che anche noi siamo capaci di fissare «lo sguardo» su di lui, di riconoscerlo e di dargli un nome: «Ecco l’agnello di Dio» (Gv 1,36), in un rapporto talmente paritario da potersi permettere la curiosità dell’interrogativo: «Rabbi, dove dimori?» (1,38) e il coraggio dell’imperativo: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta (1Sam 3,9)». Anzi, sembra addirittura che a questo nostro riconoscimento sia riservata una priorità, almeno cronologica. Come se nel gioco di sguardi e di cuori, di libertà e di relazione, tra noi e Dio, esista un primo passo che solo noi possiamo compiere, affinché la nostra umanità possa responsabilmente fiorire e uscire dai recinti della solitudine: «Samuele crebbe e il Signore fu con lui» (3,19).

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