Natale del Signore

Is 52,7-9 / Sal 97 / 1Cor 9,19-22a / Lc 2,15-20

FUORI DALLA CRISI


L’attesa è finita: pronti o indaffarati, sereni o ansiosi, felici o rattristati, è Natale, ancora una volta. Il tempo dell’Avvento ci ha regalato l’occasione per andare incontro al mistero dell’incarnazione. La voce dei profeti, la testimonianza di Giovanni Battista, il sogno di Giuseppe, il coraggio di Maria hanno hanno tracciato una strada per giungere ricchi di desiderio davanti alla follia d’amore di un Dio fatto uomo. Il dono, piccolo e immenso, del Natale ora sta davanti ai nostri occhi, per essere contemplato, creduto, accolto. Quest’anno, però, casca male. La crisi sta togliendo speranza e sorrisi a tutti. Il tunnel di incertezza e ristrettezza che abbiamo imboccato, nessuno sa quanto sarà lungo. Perché, come gioire in questi tempi difficili?

Piena crisi
La prima lettura della liturgia dell’aurora ci fa ascoltare un oracolo di Isaia che si colloca al tempo dell’esilio in Babilonia. Si tratta di un momento drammatico per Israele che, in due battute, si è vista sottrarre il dono della terra. Prima ad opera degli Assiri che hanno invaso il regno del nord, poi dei Babilonesi che sono riusciti a conquistare il regno del sud, mettendo a ferro e fuoco la città santa. Questa doppia sconfitta manda letteralmente in tilt la fede del popolo di Dio, costringendolo a cercare tracce di speranza per il futuro. Anche la crisi che noi stiamo attraversando può essere l’occasione per ritrovare un vangelo che infonda fiducia nel domani. A partire dal Natale che oggi celebriamo. Per molti, troppi anni, il Natale si era ridotto, nei nostri costumi, a una festa vuota e melense, quasi la ciliegina sopra una torta fatta — diciamolo pure — soprattutto con le nostre mani. È andata così nel dopo guerra. Ci siamo rialzati, abbiamo ricostruito il Paese, ci siamo avventurati nella più grande trasformazione sociale ed economica che la storia abbia conosciuto, senza accorgerci però che la fede nel Dio di Gesù Cristo stava passando dal centro alla periferia delle nostre preoccupazioni. Pensavamo di essere un treno in corsa, invincibile, inarrestabile, lanciato verso meravigliose destinazioni. Non era vero! Come altre generazioni prima di noi, stavamo idolatrando alcune cose che ci capitavano (sviluppo tecnologico, benessere, potere, libertà) e, quindi, stavamo preparando il nostro esilio. Che, sfortunatamente e puntualmente, è giunto! Ma proprio qui, in questa distanza da ottimismo e serenità, è più facile che ci raggiunga, oggi, l’annuncio del Natale, il grido che la crisi finirà presto: «Regna il tuo Dio» (Is 52,7).

Bella storia
Già, ma come regna? La storia la conosciamo bene eppure ogni anno dobbiamo ricordarla, raccontarla, ascoltarla con il cuore e con l’intelligenza della fede. In un giorno qualsiasi della storia umana, in una notte come tante altre, Dio ha cominciato a regnare in questo mondo facendosi uomo: «il Verbo di Dio si è fatto carne ed è venuto ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Tra l’attesa di pochi e l’indifferenza dei più, Dio è entrato nella storia, l’eterno ha scelto di abitare il tempo, Dio è diventato uno di noi. Tutto ciò è splendido: Dio non trovato luogo più desiderabile se non la «carne della nostra umanità e fragilità» (san Francesco). Quel Dio che nemmeno «i cieli possono contenere» (santa Chiara) ha deciso di porre la sua tenda in mezzo alle nostre, sicuro di voler condividere in tutto e per tutto la nostra condizione umana. Ciò significa che la nostra piccola, povera umanità è un luogo infinitamente degno e glorioso, molto più di quanto generalmente pensiamo. Ma tutto ciò fa venire anche un brivido. Se Dio è venuto ad abitare la nostra terra, allora non possiamo più rivolgere le nostre preghiere a un cielo distante, imputandogli la colpa di sembrare assente o estraneo ai nostri problemi. Il freddo, la fame, la tristezza, la solitudine, l’ingiustizia non sono più situazioni disagevoli che Dio può risolvere, ma condizioni che egli conosce e sperimenta. Con noi, come noi. 

Mangiatoie vuote
Per accogliere il Natale come una gioiosa notizia, dobbiamo fare come i pastori, che dopo aver sentito il messaggio angelico dicono: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Lc 2,15). Anche a noi Dio chiede di aggiungere un altro pezzo al nostro mosaico, spesso sbiadito o incompleto ai nostri occhi. Il Natale è l’invito a credere che nello scenario della nostra vita c’è qualcos’altro rispetto a quello che conosciamo, qualcosa che non è né da conquistare, né da produrre, ma solo da accogliere: il dono di un Salvatore, piccolo e bisognoso di tutta la nostra premura per poter crescere. Si tratta di una minuscola ma potente speranza, che non svela solo quanto Dio sia vicino a noi. Ci annuncia anche che la nostra vita ha senso quando è offerta, diventando cibo e consolazione per altri. I pastori vedono solo un bambino in una mangiatoia, con i suoi genitori accanto: «E trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia» (2,16). Tuttavia questo umile segno è sufficiente a loro per tornare a casa sazi e felici,  «glorificando e lodando Dio» (Lc 2,20). Capiscono che una vita deposta in una mangiatoia svela il mistero di Dio e quello dell’uomo. 
Buon Natale, allora! Se accogliamo il segno povero e umile di Betlemme, forse possiamo cominciare a credere che dalla crisi, in fondo, in un certo senso siamo già fuori. È vero che dobbiamo rimboccarci le maniche, imparare a vivere più sobriamente, costruire città e società che non puntino a portare tutti in alto, ma sappiano volgersi in basso, dove si pratica la condivisione e la solidarietà con gli ultimi. Ma non è vero che i giorni futuri sono un tempo di crisi. Se lo vogliamo accettare, sono soprattutto un tempo di grazia, perché ci restituiranno l’opportunità che rischiavamo di perdere: usare il tempo che ci è donato per amare e servire. Di mangiatoie vuote — dove far diventare la nostra vita pane che si offre in dono — ce ne sono e ne restano a volontà. Basta riconoscere quella preparata per noi e distendersi su di essa. Con semplicità e confidenza. Senza paura, come un bambino appena nato.

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