XXXIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Pr 31,10-13.19-20.30-31 / Sal 127 / 1Ts 5,1-6 / Mt 25,15-30

CI VUOLE POCO



Le tre parabole con cui l’evangelista Matteo si congeda da noi alla fine di quest’anno liturgico sono un potente antidoto contro le sonnolenze e gli incubi che possono serpeggiare dentro la comunità cristiana e nel cuore di ogni discepolo. Domenica scorsa il primo timore: il Signore tarda a venire, tanto vale dormire un po’. No, diceva il vangelo, il Signore viene presto, come uno sposo. Occorre avere lampade capaci di accendersi e restare accese. Oggi il secondo sospetto: il Signore è un tipo piuttosto duro ed esigente con noialtri. No, dice il vangelo. Proprio no.

Durezza
C’è una durezza spaventosa nel finale della celebre parabola dei talenti. Dopo aver riscontrato l’ottima gestione dei primi due servi, a cui aveva affidato cinque e due talenti, i quali hanno raddoppiato il capitale come bravi managers, il «padrone» (Mt 25,19) va su tutte le furie quando l’ultimo servo, che di talento ne aveva ricevuto uno solo, confessa di non aver osato l’investimento e, pieno di paura, restituisce il denaro ricevuto: «Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (25,26-30). Perché questa reazione così esagerata di fronte all’errore di un servo che non ha nemmeno dilapidato il patrimonio? Può essere questa immagine la rivelazione del volto di Dio che ha animato tutta la predicazione del Rabbì di Nazaret? Lui che ha detto questa parabola qualche giorno prima di iniziare la sua passione e morte per amore di tutti gli uomini? Evidentemente, no. Per scoprire il motivo che sta all’origine di queste parole, è necessario fare attenzione a quanto dice il servo, quando si presenta davanti al padrone: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo» (25,24-25). È la voce di Adamo, che dopo aver peccato si nasconde da un Dio avvertito come minaccioso. È il veleno del serpente, che sta dentro il cuore di ciascuno di noi e ci induce a pensare che il Signore ci chieda tanto, troppo. Che sia un tipo duro.
Fiducia
La conclusione della parabola non è né buona, né nuova notizia. È quello che, purtroppo, sta radicato in fondo ai nostri pensieri. Il sospetto che Dio sia, in fondo, una persona rapace, esigente. Che anche dietro le cose più belle e sante che ci chiede di fare, in fondo, ci sia una qualche trappola. È il motivo per cui viviamo fedeltà occasionali al suo vangelo, per cui non ci gettiamo mai fino in fondo nelle scelte, per cui ricadiamo spesso nei soliti peccati. Il vangelo nascosto in questa parabola invece è tutto all’inizio, talmente bello da passare quasi in secondo piano: «Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì». (25,14-15). Dio non è duro, ha immensa fiducia in noi. Al punto da prendere i sui beni e affidarceli. E lo fa rispettando le nostra capacità, senza umiliarci, senza illuderci, dandoci dignità nel collaborare con lui alla costruzione del Regno. Senza metterci il suo fiato sul collo, come un genitore ansioso. Si allontana, ci lascia spazio e tempo per imparare, per sbagliare, per cercare e trovare. No, no è proprio un tipo duro. È un tipo bello: che non possiede ma condivide, che non fa tutto da solo perché ha fiducia nel prossimo, che lascia libertà. Per lui siamo come quella donna forte di cui parla la Sapienza: «In lei confida il cuore del marito» (Pr 31,11). Questo è il Dio che Gesù ci ha rivelato: il Padre.

Basta poco
Questo volto splendido di Dio, che rende operosi e sereni i suoi figli, è quanto l’apostolo Paolo cerca di ricordare a una comunità tentata di orientarsi secondo false sicurezze economiche e politiche del mondo greco-romano di duemila anni fa: «Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro» (1Ts 5,4). Allora come adesso, la tentazione è sempre quella di illudersi che esista qualcosa di meglio della realtà per prendere parte «alla gioia» (Mt 25,21.23) del Signore e della sua vita eterna. La sfida più difficile per i cristiani di ogni tempo è quella del poco, dell’ordinario, del quotidiano, in cui il cuore è chiamato a diventare «fedele» per imparare così ad avere «potere su molto» (25,21.23). Il timore dell’ultimo servo si era costruito proprio attorno alla scusa della sua più piccola misura. Sembrandogli poco — rispetto agli altri — il denaro ricevuto, si era sentito anche autorizzato a fare la vittima e a condurre una vita mediocre, rassegnata a sterilità. La conversione a cui chiama la liturgia di questa domenica è — come sempre — verso il basso e verso il meno. Il tempo che viviamo non è stagione di crisi ma occasione di servizio. Nello spirito esiste una legge bellissima e terribile: più diamo fiducia e più ne riceviamo, più ci spendiamo più ci risparmiamo, più diamo e più abbiamo. Più viviamo il nostro battesimo e più ci sentiamo a casa ovunque e comunque, mai vittime della paura che rende immobili e tristi. Dobbiamo solo accettare e vivere la sfida del poco. Non perché siamo tipi che si accontentano, ma perché il poco è davvero sufficiente alle mani di Dio per creare molto. In fondo moltiplicare la realtà è sua prerogativa, non nostra. Perché ce lo dimentichiamo così facilmente?

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