Visitazione della Beata Vergine Maria

Letture: Sof 3,14-18 / Is 12,2-6 / Lc 1,39-56


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Il calendario liturgico ci fa concludere il mese di maggio, tradizionalmente dedicato alla Vergine Maria, con la festa della Visitazione, il primo gesto missionario che la Madre di Dio compie dopo aver accolto l’annuncio del vangelo. Le Scritture scelte per questa festa sono tutte pervase da un’atmosfera di lode e di giubilo, che può risultare persino eccessiva nella forma perentoria dell’imperativo con cui si apre la parola profetica: «Gioisci, figlia di Sion, esulta, Israele, e rallegrati con tutto il cuore, figlia di Gerusalemme!» (Sof 3,14). Tra i tanti sentimenti che di cui facciamo esperienza, la «gioia» (Lc 1,44) è infatti il più difficile da suscitare quando manca, o da simulare quando la sua presenza è tenue o intermittente. Al punto che l’allegria diventa quel sogno che non ci permettiamo più di coltivare, a causa delle ferite e delle delusioni accumulate nel cuore. Eppure è proprio la felicità il primo effetto che la «presenza nascosta di Cristo» (preghiera dopo la comunione) è capace di suscitare, come lascia intendere la replica di Elisabetta all’ingresso di Maria nella sua casa: «Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo» (1,44). Vale la pena di chiedersi in che modo la Vergine ha saputo fare esperienza di una gioia così diffusiva, da giungere, attraverso i secoli, fino a noi.


Le parole del Magnificat - antologia e compendio sapiente delle promesse di Dio a Israele - suggeriscono un modo per non smettere di sperare nella gioia e nella sua capacità di raggiungere le pieghe di ogni storia e di ogni cuore. La giovane Maria, dopo essere stata visitata dalla «potenza dell’Altissimo» (1,35), si precipita (cf 1,39) a visitare Elisabetta con il cuore in festa: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore» (1,46-47), svelando il segreto fontale di tanta euforia: «perché ha guardato l’umiltà della sua serva» (1,47). L’animo di Maria è stato colmato di contentezza quando si è scoperta guardata con sorprendente attenzione dall’Onnipotente, che compie «grandi cose» perché il suo nome è «Santo» (1,49). In questo sguardo la Vergine ha potuto comprendere pienamente il mistero della sua esistenza, accorgendosi di essere immersa in un oceano di «misericordia» ansioso di stendersi sull’umanità «di generazione in generazione» (1,50). Gli occhi di Dio hanno rivelato a Maria, che la sua piccola, fragile umanità serviva al suo disegno di amore e alla salvezza del mondo.


Gli occhi sono un organo potente e debole. Si possono soltanto chiudere o aprire, ma rappresentano una soglia sacra e sublime, dove il mistero della nostra realtà si pone in relazione con quella dell’altro. Gli occhi sono la porta dell’anima, dicevano gli antichi. Per mille motivi, qualche volta i nostri occhi sono così stanchi o appesantiti da rimanere chiusi di fronte alla più bella esperienza che si possa vivere in questo mondo: lasciarsi guardare da Dio e poi vivere di questo sguardo, tornando alle cose di ogni giorno - alle scrivanie e alle strade, al chiostro e al mondo, ai fratelli che attendono la nostra visita e il nostro riconoscimento - con un cuore rinnovati dall’amore. Con un canto sulle labbra.


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