Giovedì - VII settimana del Tempo Ordinario

Letture: Sir 5,1-10 / Sal 1 / Mc 9,41-50


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L’avvertimento a non essere troppo esclusivi, impedendo al bene sparso altrove di svilupparsi, oggi si trasforma in un invito a verificare attentamente la qualità del nostro vivere e del nostro agire. Più che preoccuparci di ciò che gli altri possono (eventualmente) fare nel nome del Signore, siamo chiamati a considerare ciò che noi stessi potremmo (tragicamente) compiere proprio in nome suo.


Già l’avvio del vangelo ci ricorda che è cosa serissima essere cristiani, cioè appartenere al Padre attraverso il legame con il Figlio suo. Dice Gesù ai suoi discepoli: «Chiunque vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa» (Mc 9,41). Il discepolo deve assicurarsi di manifestare realmente il nome ricevuto nel battesimo, piuttosto che verificare se altri stanno cercando di agire in riferimento a questo nome. È penoso (per noi stessi) e scandaloso (per gli altri) portare nomi che non rappresentano autenticamente le relazioni che stiamo vivendo, assumere ruoli senza portarne tutta la responsabilità. Il Signore Gesù dichiara che su questo punto vale la pena di essere totalmente sinceri e disposti a tutto pur di non rimanere nelle tenebre di una profonda ambiguità: «Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala... e se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo...e se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, taglialo...» (9,43.45.47).


Proprio così, infatti, ogni giorno il carattere della nostra vita «diventa insipido» (9,50): attraverso quell’indolenza che rimanda «di giorno in giorno» (Sir 5,8) il momento della conversione al Signore e permette alla mano, ai piedi e agli occhi di perseverare nelle tristi «passioni del cuore» (5,2). Ma la radice del problema non sta tanto nelle passioni che, se ben orientate, conferiscono «sapore» (Mc 9,50) al vivere quotidiano, quanto nella autosufficienza apertamente denunciata già dalla sapienza antica: «Non confidare nelle tue ricchezze e non dire: ‘Basto a me stesso’» (Sir 5,1). In fondo a ogni peccato, che mortifica la nostra umanità, e a ogni giudizio, che ferisce quella altrui, c’è un delirio di potenza difficile da riconoscere e confessare, che fa dire al cuore: «Chi riuscirà a sottomettermi per quello che ho fatto?» (5,2).


Il Signore, pur essendo «paziente» (5,4), di «grande compassione» (5,6) e sempre incline al «perdono» (5,5), ci impedisce di «aggiungere peccato a peccato» (5,5). Ci annuncia oggi che se la nostra vita manca di verità e di sapore, soltanto «con il fuoco» (Mc 9,49) potrà essere nuovamente salata. Perché attendere un simile «giorno di sventura» (Sir 5,10)?


Commenti

maria ha detto…
"È penoso (per noi stessi) e scandaloso (per gli altri) portare nomi che non rappresentano autenticamente le relazioni che stiamo vivendo, assumere ruoli senza portarne tutta la responsabilità."

Domanda per te Roberto: ma se uno in cuor suo desidera essere sale, desidera essere testimone autentico di Cristo, ma vede che i suoi limiti glielo impediscono in QUESTO preciso momento e non riesce ad affidarsi pienamente al Signore perchè gli dia coraggio e lo fortifichi nella fede e perciò prega il Signore di aiutarlo e continua a confidare che Dio (anche se non sa bene come) nella Sua misericordia lo aiuterà, sta forse sbagliando?