Giovedì - XV settimana del Tempo Ordinario

Letture: Is 26,7-9.12.16-19 / Sal 102 / Mt 11,28-30


RISTORO



Al Signore Gesù non sfugge mai la difficoltà dei cammini che il suo vangelo ci chiama a percorrere. Dopo averci esortato ad abbandonare il cuore agitato in favore di uno più piccolo e più libero, ecco un invito pieno di speranza: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28).


Quando viviamo momenti di fatica e di tribolazione, la voce di qualcuno che ci promette un sollievo risuona dentro di noi come un dolce canto. Ma la proposta di Cristo non ci lascia in totale passività, vuole piuttosto mettere in moto le nostre forze residue: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (11,29). Assumere un peso e imparare un modo nuovo di portarlo è una logica diversa da quella con cui noi, molto spesso, cerchiamo di rilassarci e distrarci un po’. Quando il carico dell’oppressione si fa troppo pesante, scatta in noi una naturale difesa che ci spinge a cercare qualche risarcimento per il sacrificio eccessivo che ci è stato chiesto. Purtroppo - per fortuna - questo modo di riprendere il fiato non funziona. Il più delle volte dopo aver provato a evadere per riposare siamo più stanchi di prima. Non si è rigenerato il cuore, cioè la logica profonda del nostro vivere.


Terribile, ma piena di rivelazione, è la descrizione del profeta Isaia: «Come una donna incinta che sta per partorire si contorce e grida nei dolori, così siamo stati noi di fronte a te, Signore. Abbiamo concepito, abbiamo sentito i dolori quasi dovessimo partorire: era solo vento» (Is 26,17-18). La nostra esistenza quotidiana - così come essa chiede di essere vissuta e talora patita - non diventa pesante quando il carico di stress si fa insostenibile, ma quando assumiamo le prove da soli, compiendo l’ennesimo, sterile sacrificio che non ci è chiesto. Nemmeno da Dio.


Ciò che Dio invece ci chiede è di condividere il «suo» (cf. Mt 11,29) giogo, provando a credere che in fondo il peso maggiore del nostro vivere sia proprio lui a portarlo e non noi. Imparare la mitezza e l’umiltà significa accettare di non poter compiere da soli il sacrificio della vita, di dover accogliere la compagnia di chi pone la sua vita accanto alla nostra. Non è impossibile. Dobbiamo solo sbarazzarci di quel sottile gusto che proviamo a fare gli eroi da soli, per poi leccare - in solitudine - il sapore amaro delle ferite. In fondo basta ascoltare un invito: «Venite a me» (11,28) e poi accoglierlo: «Sì, sul sentiero dei tuoi giudizi Signore, noi speriamo in te; al tuo nome e al tuo ricordo si volge tutto il nostro desiderio» (Is 26,8).


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