XXX Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Letture: Ger 31,7-9 / Sal 125 / Eb 5,1-6 / Mc 10,46-51


COSA VUOI?


Le stesse parole, la stessa domanda. Però i destinatari non sono più i discepoli con il cuore pieno di sogni di gloria. È un uomo «cieco» che sta seduto «lungo la strada a mendicare» (Mc 10,?). A lui il Maestro chiede: «Cosa vuoi che io faccia per te?» (10,51).


Urla

In realtà questo interessamento di Gesù viene attivato dallo stesso cieco che, «sentendo che c'era Gesù nazareno» nei suoi paraggi «cominciò a gridare e a dire: 'Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!'» (10,47). Il miracolo, che il Signore successivamente compie, inizia qui, in questo strillo emesso senza censure, in questa forza sprigionata con libertà. I poveri non hanno problemi ad esprimere gemiti e invocazioni. Li abbiamo noi, che apparentemente mendicanti non siamo. Noi, che le urla le mettiamo spesso a tacere. «Molti lo rimproveravano perché tacesse» (10,48), annota scrupolosamente l'evangelista Marco. Molti, cioè i discepoli, la folla, noi. Perché l'urlo è sconveniente, denuncia un'assenza, dichiara un'ingiustizia, afferma l'attesa di Dio e non la sua presenza. Per questo cerchiamo di rimuoverlo in fretta. L'urlo imbarazza e turba. Eppure la sua presenza pervade il libro delle Scritture, così come abita - più o meno stabilmente - il cuore di ciascuno. Dalla nascita fino alla morte, le grida scandiscono la vita umana in tutte le sue stagioni.


Insistenza

Il cieco non si lascia intimorire dai rimproveri, ma grida «ancora più forte» (10,48). La verità di un grido sta nella sua forza e nella sua durata. Non basta gridare, occorre gridare con insistenza. Perché tante volte non siamo veramente nelle parole che diciamo. Nel bene e nel male, non siamo presenti in ciò che esce dalla nostra bocca. E infatti ci stufiamo quasi subito di gridare nel deserto, di esporre la nostra povertà senza essere immediatamente soccorsi o consolati. Le poche grida che non abortiamo dentro di noi hanno una durata corta. Sono grida che si stancano in fretta, incapaci di squarciare l'apparente silenzio di Dio. Così tiriamo a campare, abbassiamo gli obiettivi. Ci abituiamo a rimanere nel buio della nostra vita mediocre. Anche perché - in fondo - chi si accontenta gode. E poi siamo tutti nella stessa barca. Quante volte siamo così: cristiani stanchi, senza voce, senza annuncio. Uomini e donne grigi e spenti, senza sangue, senza passione. Quanti giorni, mesi e anni si trascinano senza alcuna vitalità, senza alcun progetto. Come una vita che non ci appartiene, ma che si siamo abituati a tollerare. Senza avere più il desiderio di combattere e cambiare. Silenti e spenti.


Chiamate

Prima di ascoltare il grido del cieco, Gesù restituisce ai suoi discepoli la voce che hanno perduto. Dice loro: «Chiamatelo!» (10,49). Ed essi - in un battibaleno - smettono di mortificare e cominciano ad esortare: «Coraggio! Àlzati, ti chiama!» (10,49). Ecco la chiesa, finalmente! Ecco, il compito dei cristiani: «indirizzare allo sfiduciato una parola» (Is 50,4). Diventare voce profetica di quello che il Signore dice ad ogni uomo: «Innalzate canti di gioia per Giacobbe, esultate per la prima delle nazioni, fate udire la vostra lode e dite: 'Il Signore ha salvato il suo popolo, il resto d'Israele'» (Ger 31,7). A queste parole il cieco sembra già capace di vedere, infatti «gettato via il suo mantello, balzò in piedi e venne da Gesù» (Mc 10,50). Il mantello, per un israelita, era indumento essenziale, diritto inalienabile. Il cieco lo getta via, perché ha incontrato qualcuno che «vale più della vita» (Sal 62,4). Accogliere la chiamata del Signore determina questo coraggio di saper lasciare le cose che ci sembravano indispensabili. Non serve più il mantello, quando capiamo che è la voce di Dio a guidare i nostri passi. Non servono più tutte le misure di sicurezza che abbiamo attivato per non lasciarci ferire dagli spigoli della vita. Tante volte non riusciamo a muoverci perché, pur essendo mendicanti, abbiamo troppi interessi da difendere. E così non gridiamo. E così non gettiamo via il mantello. E la vita non cambia. Non avviene il miracolo della conversione.


Di nuovo

Allora il Maestro Gesù risponde al grido del cieco, con la stessa domanda appena fatta ai discepoli (cf domenica scorsa): «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (10,51). Tutta diversa la risposta del povero mendicante: «Rabbunì, che io veda di nuovo!» (10,51). E così avviene: «E subito vide di nuovo». E il povero diventa discepolo: «E seguiva Gesù lungo la strada» (10,52). La salvezza è tutta qui, nella capacità di vedere nuovamente le cose. Non nella rimozione delle tenebre, non nella guarigione completa delle ferite, non nell'epurazione degli errori; essere salvi significa credere che la realtà è accolta dalla «giusta compassione» (Eb 5,2) di un Dio che si rivela come «un padre» (Ger 31,9). Essere salvi significa saper guardare le cose che ci hanno mortificato senza scappare né giudicare, volgere ancora lo sguardo sulla realtà che ci ha accecato con una speranza nel cuore. Solo quando gli occhi vedono «di nuovo» la nostra vita si muove ancora. E torna ad essere un cammino «per una strada dritta» (Ger 319). Un «tornare», vissuto «con gioia» (cf salmo resposoriale).


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