XXIV Domenica del Tempo Ordinario – Anno B

Letture: Is 50,5-9 / Sal 114 / Gc 2,14-18 / Mc 8,27-35


SECONDO CHI?



Domenica scorsa ci siamo facilmente identificati nel sordomuto guarito dal Signore Gesù. Noi uomini del terzo millennio, così poco esperti nell'arte di ascoltare; noi che abbiamo le parole più vere ancora annodate in fondo all'anima. Ci ha raggiunto come una buona notizia la possibilità di essere sciolti dalle nostre difficoltà di comunicazione, di poterci muovere dalla nostra solitudine. Ogni guarigione, d'altro canto, non è mai un avvenimento rapido e meccanico. Riaprire i canali della comunicazione significa accettare di conoscere e di farsi conoscere. Con tutti i rischi che ne conseguono, come il vangelo oggi ci racconta.


Secondo il mondo

Il Maestro Gesù si trova ancora una volta in una zona periferica, lontana dai luoghi in cui il nome e la presenza del Dio di Israele si impongono con indiscutibile evidenza. I «villaggi intorno a Cesarèa di Filippo» (Mc 8,27) erano una regione ambigua, disseminata di templi pagani. Proprio qui, Gesù, mentre sta camminando con i «suoi discepoli», decide di interrogarli circa la sua identità: «La gente, chi dice che io sia?» (8,27). Un improvviso sondaggio, alla ricerca dei nomi e dei giudizi che si stanno costruendo attorno alla sua persona. «Giovanni il Battista; altri dicono Elìa e altri uno dei profeti» (8,28); tutti pareri abbastanza allineati: alla gente il falegname di Nazaret pare proprio essere uno degli uomini inviati da Dio per parlare al suo popolo. Un profeta, appunto. Ma l'interesse di Gesù è un altro: «Voi, chi dite che io sia?» (8,29). Che bello un Maestro che ha voglia di sapere cosa c'è nel cuore dei suoi discepoli! Sufficientemente sicuro di sé da avere una precisa identità, ma nel contempo così attento al cuore degli altri da sentire il bisogno di verificare cosa gli altri vedono e pensano di lui. Avendo scelto di camminare con noi, il Dio che Gesù ci rivela è attento al cammino di ciascuno. Parla, si lascia incontrare, attende. Poi, finalmente, interroga. Ci chiede di aprire il cuore e di rivelare quali pensieri lo abitano.


Secondo gli uomini

Veloce e autentico, Pietro c'azzecca subito: «Tu sei il Cristo» (8,29). Chissà che momento speciale deve essere stato per i Dodici! Lo sguardo illuminato ed emozionato del pescatore Simone. Il sorriso di Gesù. I volti ammutoliti degli altri undici discepoli, che capiscono di essere dentro un momento di alta rivelazione. Eppure il Maestro interrompe subito la festa: «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno» (8,30). E si mette ad insegnare la parte più scomoda del vangelo: «E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto, ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere» (8,31). Un «discorso» franco, diretto, che Gesù fa «apertamente» (8,32) ai suoi amici. Allora Pietro, forte dell'autorità appena conquistata con la sua illuminata risposta, fa una cosa davvero incredibile, prende «in disparte» il Maestro e «si mise a rimproverarlo» (8,32). Pietro inciampa subito nella povertà di Dio che Gesù ha appena rivelato con le sue parole. La povertà dell'amore, che non si tira indietro di fronte al rifiuto. E non ci pensa due volte a consigliare al Signore una via diversa, che non vada incontro al rifiuto e alla morte. Gesù si gira verso i discepoli e rimprovera aspramente Pietro: «Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini» (8,33).


Secondo Dio

L'esperienza di Pietro, che in pochi istanti passa dal ruolo di perfetto teologo a quello di indemoniato, ci rivela che dentro di noi esistono due modi di pensare. Uno viene dal maligno, ed è tanto diffuso da essere definito da Gesù un modo di pensare «secondo gli uomini» (8,33). L'altro viene da Dio e contiene qualcosa che suscita immediatamente il nostro rifiuto. Si tratta della croce, quella zona d'ombra della vita umana che noi volentieri ignoriamo e tentiamo di rimuovere da ogni nostra valutazione. Ci fa paura programmare e analizzare la vita includendo ciò che accade quando non veniamo accolti, anzi rifiutati. Perché fa male ed è orribile. Eppure succede. E il motivo non è la negligenza di Dio. Semmai la durezza dei nostri cuori. Alla folla (noi) e ai discepoli, il Signore Gesù ripete coraggiosamente come stanno le cose: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» (8,34-35). La croce non è il destino della nostra vita, ma un passaggio obbligato, 'legge comune' (Shakespeare). La realtà porta con sé l'esperienza e il mistero del male come un indelebile tatuaggio, che tutti ci troviamo addosso. Ma il destino della nostra vita non è la morte per sempre, è la risurrezione. Pertanto la croce non va mai cercata ma semplicemente accolta, quando arriva. Non come una parte scomoda e inutile che prima o poi passerà, ma come una delle preziose «opere» (Gc 2,14) che Dio ci chiede di compiere. Così si dà autentico ascolto alla parola di Dio, secondo l'esperienza del profeta che annuncia il cammino del Cristo: «Il Signore Dio mi ha aperto l'orecchio e io non ho opposto resistenza, non mi sono tirato indietro» (Is 50,5). Fiduciosi che «il Signore Dio» resta «vicino» a noi e ci «assiste» (50,7-8), per condurre i nostri passi «nella terra dei viventi» (salmo responsoriale).


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